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Storie di artisti – Serena Baretti

Ecco che arriva Leo, un giornalista assai curioso che, come da accordi, vuole intervistarmi per conoscere ed approfondire alcuni aspetti dell’arteterapia, della mia attività, degli ambienti nei quali lavoro, delle mie esperienze pregresse. Lo faccio accomodare, gli offro un succo di frutta e… cominciamo!

Leo – Come ti definisci? E come definiresti la tua arte ed il tuo modo di lavorare sia come artista che come arteterapeuta?

Serena – Forse posso dire di sentirmi “un’artista imperfetta ed eclettica” poiché sin da piccola progettavo, pasticciavo, mescolavo colori e materiali per raggiungere, nell’atto creativo, un sentire il più completo possibile, fatto di percezioni e stimoli differenti, funzionali nel portare alla luce le mie emozioni nell’istante stesso in cui le vivevo. A fine opera rivedevo nel quadro il riflesso di ciò che sentivo così chiaro e nitido da poter rivivere il tutto in un riassunto fatto di materia e di colore e ciò accadeva anche nei miei personaggi.

L. – Personaggi?

S. – Sì, personaggi! Perché quando ero piccina ero più teatrante che pittore, mi ritrovavo spesso a recitare e a drammatizzare. Mi divertivo molto nel creare storie fantastiche e burattini che io stessa costruivo da materiale di scarto. Mia nonna abitava vicino alla fabbrica di coltelli Kaimano che, sino agli anni Ottanta, è stata attiva ad Acqui Terme; vicino al suo cortile vi era sempre un cassone pieno di materiali di scarto provenienti dallo stabilimento, soprattutto manici di coltelli fusi male e destinati alla discarica. Dal canto suo, mia madre, essendo sarta, produceva molti scarti di tessuto e, pertanto, con mia nonna giocavamo a vestire quei manici scartati creando fantastici burattini. Già da quel momento avevo compreso che con semplici materiali e con un po’ di fantasia si potevano fare grandi cose. Ma alcune famiglie della zona e qualche mio coetaneo spesso consideravano poco elegante il mio modo di creare utilizzando materiali di scarto, e quel loro atteggiamento a volte mi faceva sentire “diversa”. Fortunatamente oggi le cose sono molto cambiate e ciò che pensa la gente di me mi tocca solo relativamente. Crescendo, in primis mi sono dedicata al mio bisogno creativo e noncurante degli sguardi giudicanti del mio passato e, come risultato non trascurabile, vivo decisamente meglio. Di quelle che furono le mie personali esperienze giovanili ho comunque fatto tesoro; ben sapendo quanto sia difficile e complicato il compito di educare, durante questi due anni di pandemia ho voluto principalmente dedicarmi alla realizzazione di illustrazioni e storie per bambini che potessero essere utili ad insegnanti, educatori, psicologi ed arteterapeuti per lavorare con significati simbolici su vari obiettivi di tipo educativo, inclusivo e integrativo. Ho scelto di riprendere due favole classiche: la prima vede come protagonista il Bianconiglio (che ha come tema il tempo) e l’altra il Brutto anatroccolo (che ha come tema l’autostima). Fiabe classiche dinamiche per coinvolgere i fruenti ad interagire con tavole illustrate e con i loro protagonisti, da utilizzare nei miei laboratori mediante l’impiego del kamishibai che è un teatrino di legno contente la storia per immagini.

Inoltre ho rivisitato altre due storie “Il treno che voleva essere diverso” e “La storia di Mirò e le forme” che, entrambe, portano i fruitori ad addentrarsi in qualità di protagonisti in varie opere di pittori famosi tra i quali Picasso, Chagall, Mirò, Monet, ecc. L’obiettivo preposto è educare all’arte ed alla creatività in maniera giocosa ma inserendo, nel contempo, un pizzico di altre importanti tematiche formative quali l’integrazione sociale, il riconoscimento di sé, la stimolazione immaginativa e creativa in interazione con gli altri.

L. – Molto affascinante! Perché usare il kamishibai?

S. – Perché, lavorando prevalentemente con bimbi dell’infanzia e della scuola primaria e persone affette da demenza, ho potuto constatare che questo piccolo contenitore teatrale produce grandi stimoli e riesce ad ottenere un elevato ascolto e fascino anche per i più piccoli che spesso vogliono provare a diventare loro stessi i narratori nonché giocare con il ruolo di conduttore della storia.

L. – Ma facciamo un passo indietro… Perché usi proprio il materiale di scarto? Ha un significato particolare per te?

S. – Sì ha un significato molto simbolico che ho compreso solo dopo anni di utilizzo, di pratica, di studi e di lavoro su me stessa.

L. – Perché hai voluto raccontare questo libro (Tracce di sé ndR.) come un’intervista a te stessa?

S. –Perché mi risulta più semplice raccontare usando la parte teatrale che è in me e che mi vede creare la figura di un giornalista inventato, un’ipotetica persona curiosa; questo facilita il mio lavoro come scrittrice poiché media tra il mio dire ed il mio agire. Impostandolo in questo modo ho voluto inserire in questo scritto un po’ di gioco ed alcune parti della mia vita. Questo avviene proprio ora che ho avuto il coraggio di fare un importante salto qualitativo e definitivo, abbandonando la strada sicura dello stipendio fisso sotto padrone per dare vita al mio sogno artistico: quello di aprire un atelier creativo di arteterapia sensoriale, una vera e propria fucina nella quale allenare le mie proprie risorse e far emergere i talenti miei e dei frequentatori.

L. – Un bel salto da vera incosciente!

S. – Mah, non mi definirei incosciente perché, in fondo, è un progetto pensato e molto strutturato, figlio di una lunga storia che si protrae ormai da tanti di anni caratterizzati da gavette, sperimentazioni e resilienza. Mi piace definire la mia scelta “una filosofia di vita” poiché proprio non riesco ad immaginarmi a fare altro. Non mi fraintendere: ho fatto svariati lavori, dalla barista alla cameriera, dalla restauratrice di affreschi e dipinti murali, alla cassiera, alla receptionista, al counselor… Con le esperienze lavorative e col passare degli anni, ho sperimentato direttamente su me stessa che nessun lavoro ha più o meno valore di un altro. Però penso che ogni persona dovrebbe poter fare ciò che sente di più nelle sue corde, quello per cui ha studiato e dedicato tempo ma specialmente perché gli viene naturale, con piacere, senza grandi sforzi ed indossa perfettamente quel ruolo come un abito su misura. Sono arrivata ad un punto del mio percorso di vita in cui, per una serie di cose e avvenimenti, mi sono dovuta fermare a meditare su me stessa e sulla mia esistenza. Questo mi ha consentito di mettere a fuoco chi sono in realtà e cosa voglio veramente essere. Ho scoperto che non posso e non voglio andare contro quella che è la natura del mio spirito. Sarei sicuramente infelice se pensassi solo ad uno stipendio fisso e sicuro e non a ciò che realmente nutre la mia anima. Sono ben cosciente di essere tante cose e tutte quelle cose mi portano al sentire artistico creativo. E così ho seguito la mia anima ed il forte desiderio di divulgare e condividere ciò in cui credo perché sono convinta che faccia bene sia a me che alle altre persone, lo vedo ogni giorno, in ogni incontro che faccio ed in ogni laboratorio che conduco.

L. – Quindi non hai paura di aver preso la decisione sbagliata?

S. – Paura è una parola grossa… Certo, spesso ci sono certi momenti nei quali si presenta un qualche timore o sorgono dubbi, ma poi passano presto. Il cambiamento spaventa specialmente all’inizio ed ha i suoi pro ed i suoi contro. La perfezione non esiste e la verità sta sempre nel mezzo anche se, in un’epoca consumistica e digitale come quella dei nostri giorni, con un’idea di estetica elevata e performativa come quella attuale, è piuttosto difficile convivere e vivere in modo semplice. Purtroppo a volte si è portati a credere che tutto questo dover produrre sempre di più e sempre più in fretta, questo dover dare sempre il massimo in funzione di un ipotetico “progresso”, sia il tributo da pagare per arrivare al successo, al benessere ed alla felicità. In realtà questa folle ed insensata rincorsa al produrre senza sentire, senza collaborare e senza empatia alcuna, ai miei occhi risulta come una sorta di malattia sociale, paura del vuoto ed ansia da prestazione . Nonostante i social ed i mille mezzi tecnologici a loro disposizione, troppo spesso i nostri ragazzi si sentono soli, questo perché sono venute a mancare alcune importanti basi formative fatte di scambi e di sani legami educativi e comunicativi in presenza e non solo virtuali. Se viene a mancare il contatto umano si perde l’efficacia del fare e del sentire manuale e fisico, tutto diventa freddo, asettico, razionale e competitivo. Anche a causa di questi motivi, tra i giovani sono aumentati in maniera preoccupante i fenomeni del bullismo e dell’autolesionismo e, addirittura, i casi di suicidio. Troppo spesso essi non riescono più a contenere e a comunicare il loro sentire e non ottengono dagli altri nemmeno ascolto e comprensione. Divengono ciechi davanti ai propri talenti e, spesso e purtroppo, manco si accorgono di averne. Non di rado sono gli stessi adulti, educatori e genitori, che non riescono a stimolare i ragazzi ad individuare, valorizzare e vivere i loro peculiari talenti poiché anch’essi hanno poco tempo da dedicare a loro. In una società così competitiva come la nostra, per le nuove generazioni è assai frustrante e molto difficile saper accettare di non essere “al top” in tutte le discipline, di non essere perfetti, magari di andar bene solo in alcune materie e settori più affini al loro essere. Viene richiesto loro di dare sempre il massimo in ogni ambito, magari anche a costo di spersonalizzarli, di farli diventare dei piccoli robot teleguidati.

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