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Per non morire di deculturazione

Capanne di Marcarolo

Capanne, il cuore del nostro Appennino. Un pugno di case sparse attorno a una chiesa. Una distesa di prati sfalciati ormai da secoli. Qui la montagna è l’unico orizzonte e si ha proprio la sensazione di essere isolati dal resto del mondo. Eppure, un tempo questo è stato un luogo di traffici intensi, punto di passaggio indispensabile tra la pianura e il mare. Niente a che fare con la “riserva indiana” del presente, dove sopravvive uno sparuto gruppo di cabané.

Colpa della ferrovia e delle grandi carrozzabili di fondo valle che nell’arco di mezzo secolo l’hanno praticamente spopolato. Si pensi che ancora nell’immediato dopoguerra la parrocchia di Capanne aveva ottocento anime e ora ne restano a stento una trentina nonostante qualche coraggiosa immigrazione. Storia desolata dunque, di abbandoni, di ricordi, di radici recise, vite disperse per mille sentieri verso la Liguria, il Piemonte e anche più in là. Gente che ha fuggito ansiosa la miseria e la fatica, attratta al piano da promesse spesso risultate vane. Quanti di loro avranno rimpianto le loro cascine, l’odore acre delle loro stalle, confinati negli spazi angusti di allampanati condomini cittadini? Eppure quel mondo non reggeva più, era troppo lento per tenere il passo con i tempi. Bisognava adeguarsi, consumare, svuotare le stalle dai buoi montagnini e farci entrare dei trattori. Che costavano, che costano, e che soprattutto pochi si potevano comprare. Meglio mollare tutto, bestie e arnesi, mobili e stoviglie, prima uno se ne andava meno correva il rischio di pentirsi. Una furia iconoclasta che travolgeva tutto, come testimoniano i ruderi sparsi di molte cascine in mezzo ai quali è ancora facile trovare lo scheletro di una sedia o i cocci di una scodella. Pochi allora resistettero all’ebbrezza. Fu per coscienza? Oppure soltanto per paura?

È la città che c’ha guastato noi bricarolli. Bastava che uno pensasse che andare giù voleva dire stare sempre a discorrere sul mercato che era bell’e finita. Vendevano tutto per due soldi e poi finivano magari a fare la leggera. Certo che, a ripensarci, ora è tutto diverso. Le strade sono più buone, e poi ci sono delle macchine che si arrampicano anche su dalle rive. Ma allora era lunga venire su dalla piana con il carro, magari con un’acqua che Dio la mandava, con il rischio di restare piantati su da qualche montata. Per non dire delle donne, che per vendere quattro uova e un po’ di burro dovevano farsela a piedi fino a Campo. Forse, se ci avessero aiutato un po’ allora, qualcuno di più sarebbe rimasto e oggi non ci sarebbe tutta ’sta boscaglia in giro”.

Chi era rimasto aveva dovuto accontentarsi di restare fuori dal mondo, dalla confusione, dal progresso. Diventare razza in via d’estinzione, proprio come un indiano. Nessuno avrebbe più avuto bisogno di lui. È così il carradore finì per non andare più al piano, il maniscalco smise di battere ferri per buoi che non c’erano più, perfino le mucche era meglio non tenerle che, anzi, ti pagavano. Niente di tutto ciò che era stata la storia millenaria di quella gente pareva più avere valore. Qualcuno cominciò anche a vergognarsene di avere quella storia. Perché sentirsi dire cabané o becéllu era come un’etichetta di rozzezza in un mondo che guardava sempre più alla forma. “È stato un caso, soltanto un caso che non me ne sia andato, perché ero già mezzo deciso: m’avevano promesso un posto da guardiano nello stabilimento. Poi non se n’è fatto niente, e allora sono rimasto. E ringrazio ancora il Signore che sia andata così”.

Era quella la realtà, era inutile voler trovare una ragione ideale a tutti i costi. Del resto erano stati tempi di euforia quelli, e non era stato così facile distinguere il bene dal male. Se si pensa poi alla miseria congenita in cui si viveva, chi avrebbe mai potuto scegliere di restare in nome delle radici?

Sembrava una storia chiusa quella di Capanne, legata soltanto a un passato che pochi avevano il coraggio di rievocare. Un luogo della nostalgia, qualche affezionato villeggiante nell’estate e poi la lunga stagione dell’attesa. Le mucche arrivavano a stento a una decina e anche chi le teneva lo faceva più per rispetto dei suoi vecchi che davvero convinto che avesse ancora un senso. Era questione di pochi anni e poi tutto sarebbe finito, senza più una comunità stabile che portasse avanti la tradizione. Solo una stazione di montagna aperta stagionalmente.

Poi, qualche anno fa, ha cominciato ad arrivare gente che voleva stabilirsi quassù. Gente di città, poco pratica della montagna. Figurarsi lo scetticismo di chi s’era visto crollare tutto quanto intorno. “I nostri sono scappati e questi vengono con l’idea di viverci? Durano manco un inverno”. È stato grande lo stupore quando hanno visto che invece resistevano, magari un po’ accampati, frastornati, come chi non se l’aspettava che fosse proprio dura così. Ma ce l’avevano fatta e pian piano le cose diventavano più familiari e cominciavano a filare. E così è caduta la diffidenza e, con l’apporto dei nuovi e dei vecchi residenti, è rinata la fiducia in un futuro possibile secondo la tradizione.

I pascoli hanno ripreso ad estendersi e già si parla di produzioni tipiche di carne e di formaggi. Ora la comunità di Capanne non corre più il rischio di spegnersi e con essa è salva anche la memoria che ha bisogno di continuità nei gesti per resistere all’oblio dei tempi. In nome di tutti coloro che per secoli, nei periodi più bui della nostra storia, hanno reso il monte luogo di vita e di lavoro. In nome degli antenati. A noi piace immaginarli nell’aldilà che gioiscono commossi al suono dei campanacci e dei versi dei nuovi pastori, soddisfatti che tutti i loro sacrifici non siano stati vani.

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Memoria della montagna

Il bosco

Il bosco bisogna governarlo se non vuoi che ti vada in driverio. Bisogna tagliare al momento giusto, e tagliare come si deve, senza fretta ed egoismo. Sono le piante che ci lasci in più che ti salvano il bosco. E poi il taglio deve essere bello raso, leggermente inclinato, che l’acqua ci possa scorrere sopra. Se noi avessimo tagliato come vedo che fa certa gente oggi, non ce ne sarebbero più di boschi a Marcarolo.

Una volta la montagna dava un senso di pulito, di ordinato. Vedevi quei bei prati tagliati, rasini, non c’era un filo d’erba fuori posto. Persino le rive venivano tagliate, venivano su fin da Campo. E poi nei boschi ci si poteva passare come nello stradone, che non c’era tutta quella boscaglia di spine che t’ingombrava. Ma ora dicono che non si può tagliare, che se la levi il bosco perde la sua sostanza. Ma io dico che la perde se non gliela levi, altro che balle!

Tagliare con l’accetta era tutta un’altra cosa. Lì, se non lo sapevi fare, non lo facevi, non c’era verso. Bisognava darci con l’inclinazione giusta, con colpi secchi e precisi, e poi calcolare bene la profondità del taglio in modo da far cadere la pianta dove volevi. Sicché bisognava saper tagliare sia di dritto che di mancino. Mi ricordo che una volta, lì alla Benedicta, abbiamo tagliato un castagno che avrà avuto trecento anni. Tanto per dare l’idea di com’era grosso ci volevano tre uomini per abbracciarlo. C’eravamo io, Gigi della Leviatta, Beppe dell’Astore e Paolino della Merlina, e c’abbiamo lavorato tutto il giorno per tirarlo giù. Ma alla fine il taglio sulla ceppa sembrava la lama di un rasoio.

La montagna è finita quando la gente ha cominciato ad andarsene. Anzi, si potrebbe dire a scappare, perché hanno abbandonato tutto, persino i mobili che c’avevano in casa. I nostri vicini se ne sono andati che c’avevano ancora una mucca nella stalla. C’abbiamo dato da mangiare noi per un po’, poi finalmente sono riusciti a venderla. Perché io non me ne sono andato? Per una ragione semplice, che io senza il bosco non ci posso stare. Per me lavorare nel bosco è come un divertimento e tagliare le piante mi fa star bene. Ma lo faccio con cognizione, ché se andassimo a vedere basterebbe togliere quelle secche e quelle schiantate dalla galaverna per soddisfare ogni esigenza.

La vedete quella riva lì? Quelli erano i nostri boschi. Duri, difficili da tagliare. Figurarsi, è già difficile farlo in piano. Eppure erano quelli, e la legna era l’unica cosa che ti faceva guadagnare qualche soldo. La portavamo tutta fuori a spalle di lì, che una volta che abbiamo provato a farlo con il bue a momenti ci va a finire nel Gorzente. La portavamo fino allo rian, poi lì ne caricavamo dieci-dodici quintali sul carro e, giù per la strada del Brignoleto, scendevamo fino ai paesi.

Ci sono delle piante che non vanno tagliate. Uno lo deve vedere da sé quali sono, basta un colpo d’occhio per capirlo. Sì, forse è un dono di natura, non tutti ce l’hanno. Ma se uno conosce il bosco, se sa cosa vuol dire una pianta, lo capisce. Ci sono piante che nascono perfette e man mano che crescono diventano sempre più belle, il tronco, i rami, le foglie, e ogni volta che le vedi ci resti incantato. Non si possono tagliare quelle piante lì, sarebbe come fare un dispetto, non lo so, alla bellezza. Ma la bellezza non viene forse da Dio?

Non c’è cosa più brutta che passare in un bosco dopo un incendio. Cammini sulla cenere e l’odore di bruciato ti fa venire da vomitare. Le piante, poi, ridotte a stecchi ancora fumanti, sembrano scheletri sparsi per la montagna. Non si salva proprio niente, neanche un filo d’erba. E allora ti viene da pensare a quanto ci vorrà perché su quel terreno ci ricresca il bosco e per quanto tu sia giovane ti convinci che forse non avrai la fortuna di poterlo vedere.

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