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Il sogno della vendetta

La strada che porta al successo è ben asfaltata e senza ostacoli.

Così sosteneva la ragazza in TV  mentre il conduttore della trasmissione “USA today” alla CNN la stava intervistando.

Facile a dirsi per lei che era giovane, molto bella e soprattutto figlia del governatore dello stato dell’Idaho pensò Tomoyuki guardando distrattamente la schermo del video.

Per lui invece che era giornalista free-lance da 15 anni, non era così semplice. Ci voleva capacità, lavoro sodo e quel colpo di fortuna che tutti sperano di avere almeno una volta.

Pensieri del tutto banali in una banale giornata di freddo inverno a Philadelphia dove viveva dopo essersi trasferito negli Stati Uniti nel maggio del 1993.

Cercò di concentrarsi sul video del laptop connesso in rete sul sito Wikileaks. Migliaia di pagine erano passate davanti ai suoi occhi ormai stanchi di leggere notizie, che fino a pochi giorni prima erano state riservatissime, riguardanti governi, stati, economie del resto del mondo.

Punti di vista di chi aveva scritto?

Verità?

Falsità?

Manipolazione di notizie per far colpo sui capi che le avrebbero lette?

Chissà? Forse.

Fatto era che i poteri di mezzo mondo, che avevano vissuto rapporti più distesi in passato con gli Stati Uniti, ora erano profondamente imbarazzanti.

Si alzò quasi di scatto dalla scomoda sedia vecchia e malandata, sorella di quell’appartamento di St. James st. altrettanto vecchio e malandato dove risiedeva. Quello poteva permettersi e quello abitava da single. Indossò il cappotto nero appeso a destra della porta. Avvolse accuratamente la sciarpa rossa attorno al bavero rialzato sul collo, mise in testa il cappello nero a larga tesa dal quale non si separava mai in nessuna stagione e uscì nel freddo pomeriggio.

Solo un isolato lo separava dal piccolo parco in Rittenhouse Square, ci andava spesso a riordinare i pensieri che si accavallavano dopo ore passate a cercare qualche idea sul web.

Si avvicinò alla vasca ghiacciata al centro della quale la piccola statua della Duck Woman rivolgeva lo sguardo alla guardhouse. Le mandò un bacio ideale seguito da un sorriso appena accennato, come faceva da ragazzo verso le sue amiche, questo gli imponeva di fare la sua riservatezza.

La panchina di freddo metallo lo accolse. Da lì poteva osservare la piazza deserta e aprire la mente a pensieri costruttivi.

La centralinista del Police Department di Boston nella centralissima New Sudbury Street ricevette una chiamata. La smistò all’ufficio competente situato due piani sotto. In quella stanza grande e fumosa i detective, tra una barzelletta e una tazza di caffè, trascorrevano la giornata di quell’inverno così freddo da trattenerli il più possibile alle loro scrivanie.

Il telefono dell’investigatore Rupert Mc Intosh squillò in perfetta sincronia con l’accendersi intermittente della luce rossa posta tra il ricevitore e la tastiera numerica.

Rupert, detto Red per via dei suoi capelli rossi, lo notò da lontano. Attese la fine della barzelletta idiota che un collega idiota stava raccontando al piccolo gruppo di agenti accanto alla finestra. Poi con una smorfia di disgusto si decise a percorrere a passi lenti lo spazio che lo separava dal suo posto di lavoro.

-Ehi Red, oggi ti tocca.

La voce femminile dall’altro capo del filo precisò:

-Donna caucasica sui 30-40 anni, la trovi sulla riva del fiume a pochi passi dal molo di legno dietro la “Shell Esplanade”, quel posto dove tu non vai mai, il teatro insomma.

Richiuse il telefono e uscì pensando che in fondo era meglio il freddo che starsene ad ascoltare le idiozie di certi colleghi.

Il posto non era né lontano né difficilmente accessibile. Lo raggiunse in cinque minuti con l’auto di servizio che parcheggiò tra le mura posteriori del teatro e la striscia di plastica gialla con la scritta: do not cross-crime scene.

I soliti passanti curiosi facevano commenti sottovoce quasi a non voler disturbare la vittima. Sembrava che stesse dormendo coricata sul fianco destro tra il prato e il bagnasciuga del fiume.

Red, oltrepassata la barriera, si avvicinò al corpo senza vita della donna.

Uno degli agenti gli si avvicinò non senza lasciar trasparire una fondata preoccupazione.

-Credo di conoscere questa donna, era in un’intervista sulla rubrica Q/A del Boston Globe della scorsa settimana.

Red annuì col capo, non ricordava di aver acceso il televisore da anni. Lo considerava un soprammobile sul quale appoggiare il posacenere sempre pieno di mozziconi maleodoranti. Inginocchiato sull’erba, guardò il manico del coltello che aveva squarciato la gola della vittima spuntare da sotto la spalla appoggiata al terreno. Riconobbe dall’impugnatura un modello di Buck adatto a scuoiare orsi e bisonti. Un’arma inseparabile per chi pratica quel tipo di caccia.

A qualche metro dalla donna una mountain bike di colore argento infilata con la ruota anteriore in un cespuglio era rimasta in equilibrio. Sembrava che qualcuno la stesse sostenendo nascosto tra i rami. Attorcigliata al manubrio la tracolla di uno zainetto nero con le rifiniture gialle pendeva tra e foglie secche. Le cerniere aperte lasciavano immaginare le mani frenetiche di chi aveva cercato qualcosa all’interno senza curarsi di richiuderle, forse per la fretta di andarsene.

Chiamò l’agente col quale aveva parlato.

-Che idea si era fatto Andy?

-Sembrerebbe una vendetta, forse un pretendente rifiutato dalla donnal’ha voluta punire così.

Red scrollò il capo pensando che certi suoi colleghi avrebbero dovuto dedicarsi alla vendita di hamburger col carrettino sul marciapiedi.

Gli chiese di fare le solite domande alle persone presenti, e di scrivere un rapporto dettagliato nel più breve tempo possibile.

Alzò la mano in gesto di saluto verso il coroner. Il fotografo della polizia stava scattando fato a tutto andare come se fosse davanti a un famoso cantante rock, segno evidente che non aveva altro da documentare in quel freddo periodo invernale.

Salito in auto, tornò in ufficio.

Sei ore più tardi il caso era risolto.

 

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