I
Fiuminale
Fiuminale è il luogo prescelto per fare l’orto. Tra tutti i giardini il più ordinato di tutto il circondario è quello che, nella parte superiore, è coronato da uno splendido tiglio che non solo diffonde il profumo dei suoi fiori, ma in più offre una deliziosa frescura. Tutti sanno che profumo e frescura sono la condizione indispensabile per la meditazione. Tutti i poeti del mondo ve lo sapranno dire in rime sublimi.
Il contadino che approfitta di questi istanti di delizia e di riposo può essere considerato il più fortunato dell’universo. Eccone uno che campa senza pensieri. Quando non è più occupato nel lavoro produttivo, ma al massimo si dedica a raccogliere i frutti, questo è il momento in cui gli è concesso rifiatare. L’orto è il suo conservatorio musicale e gli uccelli, le api, le cicale e le ranocchie gli fanno il più sublime accompagnamento.
Ogni tanto, quando la sera torna a casa, si ferma in cima al paese con una sporta piena di ortaggi o di frutta da offrire alla vecchia Zia Lucia, sua nonna.
Il nostro uomo porta con sé un diminutivo caratteristico, diventato sia nome che cognome, come una marca particolare: Ieiettu. Il suo vero nome? Nessuno lo usa mai. Infatti in paese sono pochi quelli che lo conoscono. Paesani e forestieri si sentirebbero come orfani se non sentissero più menzionare Ieiettu. Lui è una presenza necessaria, una specie di monumento comunale. Come sono, ad esempio, la campana maggiore per il campanile, l’incudine per la fucina, il recinto del bestiame per la capanna del pastore, il platano maggiore per la piazza pubblica e il muretto su cui ci si siede la domenica, che delimita la piazza della chiesa, luogo preferito per le discussioni politiche o le ciarle.
La signora Biatrice, che l’ha assunto, lo ospita in una stanza a piano terra. Lì vicino Ieiettu tiene in stalla Fiammetta, una bella mula rossa che gli serve per trasportare il suo raccolto che vende soprattutto a Ntontò, il bottegaio del paese.
Certe lingue ben affilate, e di quelle non ne mancano mai, dicono sotto sotto che il fatto di essere vestito dalla signora con gli abiti del suo defunto marito fa pensare che ci sia dell’altro… Ma provate voi a fermare le lingue sciolte. La verità è che Ieiettu è sempre stato innocente. A lui nessun pensiero o confusione, nessuna invidia o ambizione ingombrano il cervello. Ma è impossibile sapere cosa pensa davvero. Inutile cercare di farlo parlare: sta muto o fa quello che non bada ai discorsi.
A esser sinceri, la sua fata protettrice è di sicuro la signora Biatrice. Per il suo benessere, una stanza calda d’inverno e fresca d’estate. Il suo paradiso terrestre, l’orto di Fiuminale dove cantano gli uccelli, dove fruscia l’alito profumato dell’elicriso e del cisto e dove lui può veder crescere alberi da frutto e ortaggi di tutte le varietà.
Quando sta al fresco con il naso fra le nuvole a pensare a chi o a che cosa, egli è beato. Se le formiche gli camminano addosso, scambiandolo per qualche montagna da scalare, lui le lascia fare e con un filo d’erba le aiuta a passare.
Se una farfalla gli si posa sul naso, lui respira piano e si trattiene dal ridere per non spaventarla.
Se il ruscello vicino fa sentire il suo sussurro accarezzato dalla frasche dei salici che gli fanno ombra, lui se la canticchia facendogli l’accompagnamento.
Bravo chi indovina cosa sta sognando Ieiettu o in quale luogo magico cammina. Forse se ne va per quei paesi mitici, sconosciuti a noi povera gente senza nessuna immaginazione. Certo è che lui percorre quelle contrade favolose dove si perde nella meditazione. Meditazione mai abituale nelle persone ordinarie, indaffarate, stressate da tutti i problemi della vita. Lui non ha mai lasciato trapelare nulla ed è meglio così, visto che, se ne avesse raccontato l’esistenza, nessuno l’avrebbe creduto e sicuramente avrebbe sparlato di lui, come è successo quando era ragazzo.
A cavallo della mula rossa, tornando da Fiuminale, Ieiettu risponde al saluto della gente che incontra con un dito sull’orlo del cappello e il suo sorriso beato stampato sulle labbra, come al suo solito. poco gli importa dei pettegolezzi e poca è la voglia di partecipare alle conversazioni.
Alla sera sta in cortile a intrecciare salici o giunchi per fare ceste, cestini, canestri, corbe e fiscelle. Oppure si mette a intagliare un bastone, un graticcio per far scolare il formaggio o un secchio. Sennò impaglia qualche fiasco, intreccia una corda di pelo di capra o fa l’imbottitura al basto. All’ora del pasto, bada a Fiammetta che lo ringrazia con un nitrito di riconoscenza, tuffando le narici nel sacchetto dell’orzo.
Ecco, in sintesi, la vita di Ieiettu, re di Fiuminale. Il suo tempo trascorre felice, la sua anima è spensierata, le sciagure umane sono lontane e le miserie di questo mondo sconosciute.
II
Primi istanti
Quando nacque Ieiettu, il paese era sferzato da un violento temporale. Una di quelle notti spaventose come se ne vedono poche. Tuoni e saette si succedevano senza sosta accompagnati da acqua e grandine. Un vero finimondo che faceva tremare porte e finestre dalle case e anche i cuori degli uomini.
Sarà stata mezzanotte passata in casa di Camellu Melzani. Erano tutti in agitazione per un avvenimento conosciuto dall’umanità da millenni: il parto sempre delicato di un primogenito.
La casetta di Camellu, soprannominato Batticoghju, visto che lui era il ciabattino del paese, non era ricca. I mobili erano rustici e piuttosto modesti. L’essenziale per vivere. Passato l’uscio il visitatore era assalito dall’odore di cuoio e sego. Risuolare e ribattere i chiodi negli scarponi era di buona resa e bastava per far bollire la pentola. Da fare tanto e pensieri pochi. A dirla tutta Camellu il ciabattino, preso dalle sue abitudini, era rimasto scapolo per molti anni senza neanche accorgersene.
Camellu non aveva allora tante necessità superflue, si accontentava di poco e viveva in modo semplice, come tutti a quei tempi, alla fine del XIX secolo. Uomo robusto, barbuto fino agli occhi e sempre allegro, faceva cantare il piede ferrato a forza di martellate che accompagnava con canzonette e indovinelli: “Minicola piacia à quellu chì bramava di falà à vede la in piaghja“, o indovinelli: “Catalì n’avia fattu tante chì l’avia da pagà“, e ancora, quando gli saltavano i cinque minuti, gli si sentiva cantare a squarciagola: “Barbara furtuna, sorte ingrata”.
Gli unici momenti in cui si divertiva erano quelli delle feste. Ovviamente a Natale e a Pasqua, ma soprattutto a San Giovanni, il patrono del paese. Allora era l’occasione per ubriacarsi con i suoi compari, rimesso il santo nel piedistallo e data mano ai bicchieri nel caffè di Pippetta a forza di paghjelle e di chjam’è rispondi.
Un giorno un compagno di baldoria gli aveva detto: “E tu, Camé, quando ti sposi?” e un altro era scoppiato in una risata: “Ma va, Camellu è impotente!”. Batticuoio l’aveva presa male. Una parola dopo l’altra ed erano arrivati alle mani. Il ciabattino aveva sferrato un ceffone a questo maldicente e gli aveva rotto tre denti. E dopo, passata immediatamente la sbornia, se n’era andato a dormire stizzito, ma non senza riflettere su quanto gli era stato detto. Di colpo Camellu, che aveva ormai 25 anni, si era preoccupato di prendere moglie. Fatto sta che si era innamorato perso di una ragazza un po’ selvatica, Maria, che viveva con la madre, quella che sapeva scacciare il malocchio e conosceva tutti i medicamenti per guarire le magagne di questo mondo: vermi ai bambini, reumatismi ai vecchi e foruncoli a tutti. Al giorno d’oggi si direbbe che la donna era specialista di botanica, da tanto la sapeva lunga in fatto di erbe selvatiche.. Ma non solo, visto che la sua bravura consisteva nel cucinarle, pestarle, mischiarle e farne uscire non so quante medicine, pozioni e unguenti.
Mamma e figlia abitavano in cima al paese ed erano considerate un po’ strane dai paesani. La causa era che, in casa loro, non si era mai vista l’ombra di un uomo. Frequentavano poca gente e Maria, al di fuori di portare una capra al pascolo, parlava poco e scappava per le pietraie quando vedeva comparire una persona. E così passava per essere una sempliciotta.