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Giallo Padùle e altri racconti

GIALLO PADÙLE

A Vecchiano mia nonna Laurinda la conoscevano tutti. Piccola, curva, vestita sempre di nero, nei giorni di festa andava avanti e indietro con il suo carrettino dalla piazza al campo sportivo. Aveva di tutto là sopra: torte coi bischeri, miglieccio, cecina, cavallucci, mentoni dolci, castagne e fichi secchi, caramelle, liquirizia, semi, noccioline e carrube, ogni cosa confezionata con cura, come se fossero tante reliquie. Per non dire delle granite che, quando veniva l’estate, erano il pezzo più richiesto della sua piccola pasticceria ambulante.

Tutto era iniziato appena finita la prima guerra mondiale quando, rimasta sola con due figli da mantenere, aveva impegnato i pochi soldi dell’eredità familiare per mettere su quel commercio. Aveva comprato il carretto, aveva cominciato a rifornirsi di caramelle, liquirizia e frutta secca a Lucca, ma, soprattutto, non aveva più smesso di cuocere i suoi dolci nel forno di casa. Erano passati degli anni e c’era stata un’altra guerra, ma lei, in un modo o nell’altro, aveva continuato la sua attività. E ormai era diventata una specie di istituzione in paese, di quelle figure che si crede che siano sempre esistite.

Ricordo ancora la confusione che c’era in casa mia in prossimità delle fiere. Allora si mobilitava tutta la famiglia e anche mia madre stava a casa dai campi per dare una mano. Io mi svegliavo al mattino al vocio delle donne che veniva su dalla cucina e quando scendevo le trovavo tutte indaffarate ad impastare, bianche di farina fin sulla pezzola. In quei giorni c’era nell’aria una tale fragranza di dolci che mi sembrava di mangiare soltanto a respirare. L’odore di anice, poi, era così forte che mi faceva frizzare le narici. Solo mio padre brontolava in continuazione perché c’erano focacce dappertutto. Eppure anche lui da bambino era andato in giro per le osterie e per i cinema con un cassettino a tracolla a vendere le stesse cose. Fu allora che lo chiamarono “puce”. Ma forse era proprio per questo che non ne voleva sapere…

Anche quell’anno, per la fiera d’aprile, mia nonna s’era preparata a puntino e contrariamente alle sue abitudini aveva già tutto pronto fin dal sabato pomeriggio. Sicché la sera della vigilia la passò a controllare che il carretto fosse a posto e io, con una candela accesa in mano, l’accompagnai sotto il portico e assistetti al suo modo maniacale di sistemare la roba: toccava e ritoccava le cose senza in definitiva spostarle di un millimetro, ma ogni volta le sembrava di averne migliorato l’esposizione e allora continuava, credendo di poter fare anche meglio. Dovette venire mia madre a chiamarci per far sì che venissimo via.

Io non dormii per tutta la notte. Guardavo fisso il suo letto nell’attesa di un segnale che mi facesse pensare che si fosse svegliata. Feci tanto che al mattino lei mi sorprese addormentato e dovette scrollarmi ben bene per farmi alzare. Lasciammo la corte che era ancora buio e non c’era anima viva in giro. Io non riuscivo a capire perché dovessimo partire così presto, ma se mi azzardavo a farglielo notare, lei mi zittiva dicendo che il posto bisognava guadagnarselo, che nessuno ce lo avrebbe tenuto. Ci sistemammo in piazza, proprio a ridosso della chiesa. Lei sosteneva che era un punto buono perché ci passavano sia quelli che andavano alla messa sia tutti gli altri. E inoltre ci poteva scappare anche una visita al Santissimo a dire una preghiera per il suo povero Ferruccio e per quella disgraziata di sua figlia.

Mia nonna non aveva un bel modo di fare per attirare i clienti. Quand’era in piazza sembrava una persona completamente diversa da quella che cantava a squarciagola le romanze e gli stornelli mentre infornava i dolci. Serviva la gente con espressione cupa, quasi funerea, con la pezzola nera calata sempre sulla fronte. Proprio come se le costasse un sacrificio enorme. Ma io conoscevo bene il dolore che si portava dentro e che aveva guastato per sempre i rapporti con la gente: non era mai riuscita ad accettare la perdita di mio nonno.

E quando le chiedevo di raccontarmi qualcosa di lui, subito le s’inumidivano gli occhi e non ce la faceva nemmeno a parlare tanta era la pena che provava. Poi, come se ciò non bastasse, aveva anche la disgrazia di quella figlia sofferente, rovinata dalla meningite a tre anni. Era per lei che faceva quel mestiere, perché non le mancasse niente e nessuno potesse mai dire che gli toccava mantenerla.

Quando il primo cliente comprò una fetta di torta coi bischeri e una manciata di caramelle mia nonna tirò un sospiro di sollievo, come se si fosse rotto un incantesimo. Poi vendemmo forte quella mattina e a lei brillavano gli occhi. Anch’io ero contento, perché speravo che se avesse fatto un bell’incasso mi avrebbe comprato qualcosa. Ma con mia nonna non bisognava mai dare qualcosa per scontato.

Accadde tutto all’improvviso, sarà stato circa metà pomeriggio. C’era tanta gente intorno al carretto e mia nonna era indaffarata a tener testa a tutti i clienti. Avrei potuto anche aiutarla, che ormai sapevo come fare. Ma lei non si fidava e voleva fare tutto da sé. Stava tagliando una fetta dell’ultima torta che era rimasta, quando improvvisamente la vidi sbiancare in volto come se si sentisse male. Mi avvicinai per chiederle se avesse bisogno di qualcosa e mi accorsi che stava fissando qualcuno in mezzo a tutta quella folla. Finì di servire il cliente, poi, sempre guardando fissa davanti a sé, cominciò a smantellare il carretto. La gente che stava aspettando ci restò di stucco e si mise anche a protestare, ma lei andava avanti imperterrita, riponendo alla rinfusa tutte le sue cose come se le importasse soltanto di far presto. Io non ci capivo più niente e cercavo disperatamente di scoprire che cosa l’avesse turbata in quel modo. Dritto davanti a noi stazionava un vecchietto, tarchiato, un po’ gobbo, con due baffi sottili e il naso adunco, che fumava tranquillo un “toscano”. Sembrava interessato a tutt’altro che al carretto della nonna, eppure lei continuava a guardarlo con astio, come se ci avesse visto un nemico. Possibile che quell’uomo insignificante fosse la causa della sua reazione, abbandonare la fiera proprio sul più bello? Chi poteva mai essere? Non ebbi neanche il tempo di pensarci che già la nonna spingeva il carretto facendosi largo a fatica tra la folla. Non mi restò che andarle dietro, ancora incredulo che potessimo lasciare la fiera in quel modo.

Tirammo dritti verso casa e lei non si voltava neppure a salutare chi la chiamava amichevolmente. Io, se non fosse stato per la vergogna, mi sarei messo volentieri a piangere. Quando giungemmo in corte, mi disse di andare su in casa, che ci avrebbe pensato lei a mettere a posto la merce. E lo disse con un tono tale che mi guardai bene dall’obiettare qualcosa. Ma tant’è, quando fui di sopra, mi misi a spiarla dalla finestra. Lei era seduta sulla stanga del carretto con la testa fra le mani e ogni tanto la sentivo sospirare e ripetere come un lamento il nome di mio nonno Ferruccio. E lo diceva con un tono che non le avevo mai sentito, neanche quando l’accompagnavo al cimitero per la pulizia delle tombe. Io non riuscivo a capire la ragione di quella tristezza improvvisa, ma mi rendevo conto che aveva a che fare con quell’uomo. Ma, mio nonno, che cosa c’entrava in tutto questo?

 

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