Era la stagione delle violette e il primo sole di marzo era troppo trasparente, nella fredda aria invernale, per scaldare la piccola creatura, nata di sette mesi. Dopo una gravidanza dolorosa, la madre se ne era liberata con un parto prematuro. La piccola, subito dopo essere stata lavata dalla levatrice, venne fasciata nella bambagia e avvolta in panni di lana perché non morisse.
Il padre portò altra carbonella nel braciere, vicino al letto, e poi si fermò a guardare il visino, ancora rosso per il pianto. Fece coraggio alla moglie: “La bambina è nata con gli occhi aperti e ha forza. Noi siamo una buona razza, vedrai che ce la farà”. Ed aggiunse sorridendo: “…E poi avere una settimina in casa può sempre fare comodo!”
Il parroco la volle battezzare nel pomeriggio: “Non si sa mai con i settimini, meglio preparare la strada per il Paradiso”.
Catterina volle vivere e la madre la considerò una grazia del Signore.
Crescendo la piccola scoprì di avere il dono delle settimine.
Cercava le erbe per i decotti medicamentosi nei luoghi nascosti dei boschi, dove in primavera sbocciavano le primule e i mughetti. Tra il fruscio delle foglie, le sembrava di sentire le voci delle masche e non aveva paura.
Andava spesso sotto una vecchia quercia, imponente sulla cima di una collina, al centro cella valle dei boschi. Si appoggiava al tronco, quasi ad impadronirsi della sua linfa e con la quercia si confidava. Dalla quercia imparava il percorso delle stagioni, scoprendo, ad ogni primavera, l’aprirsi delle foglie, raccogliendo, a fine estate, le ghiande, che andava a piantare nelle radure del bosco e di anno in anno girava a controllare la crescita dei germogli.
Sotto le fronde della quercia Catterina si fermava ad intravedere il cielo caldo dell’estate, pieno di voli e di cinguettii e, d’inverno, si lasciava sfiorare dall’aria chiara, che penetrava tra i rami spogli e illuminava di luce la terra in riposo.
Quando il tronco del vecchio albero cominciò a svuotarsi, uno sciame di calabroni venne a fare il nido e quel tampone di cera impedì all’acqua e al vento di corrodere la pianta. La bambina continuò a sedersi ai piedi del tronco e i calabroni sciamavano intorno al nido senza toccarla.
Catterina imparò anche le regole della luna: le scadenze per la semina e il raccolto, per i matrimoni e per le nascite. Sapeva fare premonizioni, osservando il corso della luna più che i fogli del calendario: dalla luna nuova di dicembre capiva capiva se l’inverno sarebbe stato più freddo e più lungo del solito, dalle piogge della luna di marzo quante volte i contadini si sarebbero messi sulle spalle la macchina del verderame e dalla calura della luna d’agosto se qualcuno si sarebbe perduto nella pazzia. Contando le lune, indicava quando fare i preparativi per la nascita di un bambino, ma anche di un vitello.
Quando la madre fu presa dall’affanno di cuore, Catterina preparò i distillati calmanti, ma presto la donna perse le forze e tenne il letto. A Catterina, che aveva solo undici anni, toccò di provvedere al padre e al fratello maggiore.
Le braccia gracili si fecero forti a sbattere le lenzuola nel grande mastello di legno, a tirare su i secchi d’acqua dal pozzo, a fianco della porta di casa, a sfrondare le viti dai germogli di primavera.
Dopo poco la madre morì, e Catterina non ebbe tempo per il dolore. Ne dimenticò presto il volto, ma di notte le tornò per lungo tempo, nel sonno, l’eco lamentosa della sua voce, come se ancora la chiamasse.
Non riusciva a sciogliere quel grumo di paura e di dolore in un pianto infantile e consolatorio. “Non serve a niente piangere”, si ripeteva con ostinazione.
Il padre, Domenico Giaire, era un uomo severo e taciturno in casa, ma di buona compagnia fuori. Al venerdì sellava il cavallo e andava a Cremosina al mercato a mangiare il merluzzo camodato e la trippa.
Finita la vendemmia, nell’ultima domenica di ottobre, invitava gli amici a mangiare la bagna cauda. Catterina tritava fini fini le acciughe e tanti spicchi d’aglio e li faceva cuocere nella terrina con molto olio, sul fornello dalla brace viva. I commensali intingevano cardi, peperoni, sedani, tupinambur e bevevano in allegria.
Davanti alla pinta di barbera, Giaire cominciava a raccontare delle città: le signore eleganti con il cappellino e il mantello, a passeggio sotto i portici, le strade illuminate anche di notte, i caffè con i tavolini pieni di signori, le carrozze e i grandi portoni di legno intagliato, per chiudere fuori i ladri.
Da giovane, Domenico era stato servitore di un avvocato, figlio del medico condotto del paese. In città aveva imparato a leggere e scrivere, ma soprattutto a pensare che chi era povero e ignorante non doveva per forza essere sottomesso a chi era ricco e fortunato.
“Se avete fatto il vostro dovere”, era solito dire ai figli, “non dovete temere nessuno. Dovete essere rispettosi ma non dovete avere vergogna né di fronte al parroco né davanti al conte, che è il più ricco del paese. Sono gente come noi, anche se siamo solo contadini abbiamo diritto al nostro rispetto”.
Si intendeva soprattutto con Catterina, con lei non aveva mai tirato fuori la cinghia, come con il figlio, anche se era testarda e ostinata. La considerava forte e giudiziosa, quasi fosse un maschio. Le riconosceva il sesto senso dei settimini e, a volte, adesso che era la donna di casa, le chiedeva consiglio in materia d’interesse.
Catterina aveva compreso la predilezione del padre e, quando era convinta di avere ragione, osava reagire agli ordini paterni. Il vecchio Giaire le aveva lasciato in mano la casa, compreso gli acquisti al mercato. Catterina era cresciuta in fretta e aveva imparato a contrattare e a fare bene i conti.
Dopo che il fratello maggiore si era sposato e un’altra donna era entrata in casa, Catterina aveva meno lavoro e alla domenica pomeriggio poteva andare all’oratorio con le amiche e aiutava il parroco a organizzare le cerimonie.
Per la processione del Corpus Domini addobbò l’altare, allestito sulla piazza, con due lenzuola ricamate della dote della madre e con tanti fiordalisi e ranuncoli, come si il crocefisso fosse immerso in un prato fiorito. Il prevosto si fermò a dare la benedizione e si complimentò per quell’omaggio originale al Signore. Gli occhi della gente intorno si appuntarono sulla giovane, mescolando ammirazione e invidia.
Catterina aveva sedici anni, quando, alla festa del paese, andò sul ballo a palchetto per la prima volta, accompagnata dal padre.
Si adattò un abito azzurro di stoffa operata, che era stato della madre, con la gonna larga, che copriva le zoccolette, e si mise sulle spalle un largo scialle a fiori. Raccolse le trecce nere sulla nuca con un fermaglio di madreperla, una farfalla bianca nella massa scura di capelli.
Il corpo era ancora acerbo e nel viso si notavano solo gli occhi un po’ incavati, neri e penetranti. La bocca era sottile e si apriva raramente al sorriso. Sul ballo il suono brillante della fisarmonica le mise allegria e si avventurò con il padre in una corrente, anche se le sue gambe non erano allenate a saltare al ritmo della musica.
I giovani del paese, intorno al piantone centrale del ballo, facevano la conta delle ragazze, che si lasciavano ammirare, protette da madri e zie. Un giovanotto, dallo sguardo ammiccante, più alto degli altri e con le mani senza i calli della zappa, invitò Catterina a ballare. L’odore maschio la avvolse e la fece sentire improvvisamente donna. Quella sera fu felice, liberata dalla fatica quotidiana.