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Il matrimonio del mio amico Joe

24 luglio 1993

Quel sabato, Lei arrivò sul calesse, trainato da due cavalli bianchi, sudaticci e svogliati, che si arrestarono sul sagrato della chiesa e la consegnarono al nostro amico, quello che chiamavamo Joe.

Era la sposa più brutta che avessi mai visto.

Io me ne stavo all’ombra del porticato, appoggiato al fresco muro scrostato, con l’immagine del santo patrono, San Fiacrio “l’irlandese” e potevo vedere l’immensa folla degli invitati battere le mani frenetica e accalcarsi, farsi strada o cercare un varco favorevole per intrufolarsi e non perdere il saluto della sposa. Dicono porti fortuna.

Potevo vedere il mio amico Joe, rigido come un trancio di sgombro, nel suo vestito da cameriere, saltellare isterico in quella calura, col suo papillon, col fazzoletto nel taschino, con le scarpe lucide, con il sorriso Pasta del Capitano: sembrava un pinguino scemo, tutto mossette, di quelli che all’improvviso vedi scivolare, picchiare di culo e precipitare dallo sbaranco, giù nell’oceano ghiacciato.

Potevo vedere lo zio missionario, Don Piero Pinguino, arrivato apposta da Thule, nel nord della Groenlandia, scompigliato ma ilare, attendere i due scimuniti, proprio accanto al portale intarsiato di cherubini e diavoli: anche lui si teneva prudentemente lontano dal sole torrido di quel mattino di luglio ed era comprensibile, avendo affrontato uno sbalzo termico impressionante.

Erano due settimane che a Tufarello la temperatura non scendeva sotto i 30 gradi, nemmeno la notte. La terra era dura, le piante ormai giallastre soffrivano la sete, ogni giorno crepava qualcuno schiantato dal sole; la roba stesa non asciugava, seccava, impolverata dal vento.

Sembrava di essere nell’Oklahoma, di “Furore”.

Mi passò accanto l’amico G, testimone pure lui – l’altro nostro amico, quello che chiamavamo Mick, aveva compiti di autista – il più bello fra noi, biondo, occhi scuri, la giacca buttata sulla spalla.

-Nemmeno conciata così è passabile. Sembra una pera cotta, vestita da bomboniera.-

Non gli risposi, avevo troppo caldo. Stavo calcolando che essendo le 10 non eravamo neanche al culmine dell’afa e che al ristorante saremmo morti tutti disidratati. O sarebbe finita in fretta la scorta di “Cocktail di benvenuto degli Sposi”, alcolico o non-alcolico, meglio alcolico.

Dal mio punto d’osservazione, vidi molto bene ciò che accadde in quei frangenti e ancora adesso mi domando perché non mi riuscì di muovere un solo muscolo o provare una qualche emozione, che, dopotutto, mi avrebbe almeno fatto bene alla coscienza.

Vidi ad esempio, che il cavallo di sinistra, pareva più vispo dell’altro, evidentemente soffocato dall’afa e infastidito dalla gente, dagli schiamazzi e dalle mosche.

Gli vibrava il ventre.

Poco dopo lo vidi alzare la coda e sicuramente non fui l’unico a notarlo, ma nessuno ci fece troppo caso, meno che mai il mio amico Joe, che continuava a saltellare qua e là, indeciso se raggiungere il braccio della sorella e appropinquarsi all’altare o restare accanto alla bianca sposa, in abito da Sirena, che continuava a stringere mani, a salutare la piccola bimba che le faceva da damigella e a sorridere con i suoi denti giallini e gli occhi sporgenti e laterali, simili a quelli dei pitbull.

Vidi benissimo che quel cavallo aveva qualcosa di impellente da fare.

Spostò il retrotreno leggermente, credo per delicatezza nei confronti del collega accanto e un attimo dopo scaricò veloce l’intestino, con diletto.

Che il mio amico Joe potesse essere salvato, non ci giurerei.

Comunque qualcuno peggiorò le cose.

Una mano afferrò il taffetà della sposa e tentò di allontanarla dal pericolo. Lei perse l’equilibrio, perché aveva i tacchi oscenamente alti e istintivamente si aggrappò al mio amico Joe, che fece un passo indietro, fatale, improvvido, schizzante.

Scivolò, divaricò le gambe in un disperato tentativo di bilanciamento: le scarpe lucide lucide lo tradirono. Cadde. Rovinosamente. Sopra. Appoggiò la mano. Proprio lì, dov’era.

Io vidi perfettamente tutto questo e sentii il silenzio improvviso della folla, il grido disperato:

“Oh merda!” – del mio amico Joe, lo strillo della bianca sposa e della di lei piccola damigella.

Non volli veder altro. Lasciai il fresco muro della Chiesa e dissi al mio amico G:

-È meglio che entriamo, i testimoni non devono tardare.-


 

-Forse non fu tutta colpa di quella merda

-Mi screditò molto comunque, non fu un bell’inizio insomma

Non mi hai mai detto come fecero a sistemarti

-Non ricordo bene, son passati vent’anni. Andammo nella canonica, mi diedero le scarpe di un altro

-Di chi?

-Credo di un morto, il marito della perpetua

-Ti sei sposato con le scarpe di un morto?

-Anche con i suoi pantaloni

-E lei?

-Piangeva, aveva il velo tutto pieno di… io lo calpestai, senza rendermene conto

-Santo Dio! Non fu un bell’inizio

-No… però succede di peggio al mondo

-Joe… devo confessarti che quel giorno non ero particolarmente felice

-Non ti ho mai visto particolarmente felice Eddie

-Nemmeno quando suono la chitarra?

-Beh… quando suoni… sei concentrato, sei nel tuo mondo, non saprei…

Alle volte quel che siamo dentro non riusciamo a manifestarlo

-È difficile capire gli altri

-Già

-Sei un buon amico Eddie

 

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