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Sessant’anni dopo

2010, secondo mercoledì di dicembre: quando a Moncalvo un uomo decise di credere alle confidenze dello zio anziché mandarlo a quel paese perché gli aveva rifilato una sfilza di panzane

Tutte le volte che preparava la soluzione zuccherina a base di acido ossalico per i trattamenti contro la varroa, per lui non era insolito pensare che non ne poteva più dello zio e che gli avrebbe fatto fare volentieri la fine che aveva in serbo per l’acaro che si stava apprestando ad annientare o, in alternativa, quella che il parassita riservava alle api.

Nel primo caso, tramortite dall’acido che lui era in procinto di sgocciolare negli interstizi tra i favi, gli esemplari di varroa sarebbero caduti stecchiti nei cassetti sottostanti le arnie da lì a due o tre settimane. Invece, nella seconda ipotesi, a collassare sarebbero state le api, a causa delle ripetute punture del parassita che avrebbe succhiato loro il sangue, goccia dopo goccia. Oppure, deformi e con le ali ridotte a moncherini, le malcapitate creature avrebbero ceduto ai virus che l’acaro aveva iniettato loro con le morsicature.

In entrambe le evenienze, la morte sarebbe stata sufficientemente lenta e penosa. Proprio il genere di dipartita che lui si augurava sarebbe toccata in sorte allo zio, con il quale aveva un rapporto che definiva un fallimento. Sua madre era morta quando lui aveva sedici anni e, nella disgrazia, non aveva trovato alcun conforto nell’essere affidato all’unico fratello di lei. L’uomo non aveva mai mostrato pazienza nei confronti di un adolescente straziato e dal carattere impulsivo, né volontà di comprendere quello che gli passava per la testa o desiderio di instaurare una comunicazione. Così lui si era rinchiuso in se stesso e non rivolgeva parola né allo zio né a nessun altro, se non per lo stretto necessario. Però non aveva potuto fare a meno di covare odio e risentimento verso l’uomo e sperava che, non appena il rapporto di forza tra loro si sarebbe invertito, con lo zio anziano segnato dagli anni e dagli acciacchi e lui giovane e nel pieno delle forze gli avrebbe inflitto quello che lui gli aveva fatto subire e qualcosa in più. Non mancava molto a quel giorno e lui spesso cercava di immaginare come sarebbe stato e cosa avrebbe provato.

Ma adesso doveva pensare ad altro. Era primo pomeriggio e, nonostante fosse metà dicembre, il clima era mite e la giornata soleggiata. Le condizioni ideali per somministrare il trattamento. Però doveva sbrigarsi. Avrebbe impiegato un’ora buona per sgocciolare la miscela tra i telai di tutte le arnie e la temperatura in quella stagione scendeva repentinamente con il calar del sole. Indossò la sua vecchia tuta gialla da apicoltore. Notò che gli elastici ai polsi erano consumati e i pantaloni troppo corti. Si intravvedevano i calzini.

“Chissenefrega” borbottò tra sé con un’alzata di spalle.

Il colore del suo abbigliamento non avrebbe fatto infuriare le api, che non lo avrebbero attaccato nelle parti che aveva lasciato scoperte. Infilò la maschera a cappello sulla testa rasata e, per ultimi, i guanti in pelle con i manicotti che si sovrapponevano alle maniche della tuta fin sugli avambracci. Poi con una mano prese la ciotola con la mistura, con l’altra la siringa da 5cc e uscì dal magazzino, incamminandosi verso il primo alveare.-

Aveva posizionato l’apiario sul retro della casa, che sorgeva isolata ai piedi di una collina a pochi chilometri da Moncalvo. Da quando si era trasferito a vivere lì, lasciando l’abitazione dello zio, l’edificio non aveva cambiato aspetto. L’esterno, seppur dipinto di un rosa inconsueto, era quello della tipica cascina piemontese, ma di dimensioni più piccole. La facciata era esposta a sud, per essere soleggiata anche d’inverno e su di essa si concentravano tutte le aperture, due porte e sei finestre, che mancavano sugli altri lati. Al piano terra, dove un tempo c’era la stalla adesso c’erano un ripostiglio e la cantina. Un terrazzo aveva invece preso il posto del fienile al primo piano. Dentro, al centro del vasto locale al piano terreno, un muretto faceva da spartitraffico all’ambiente suddividendolo in due angoli diversi. Da un lato il salotto, arredato sobriamente con un divano, la televisione e una piccola libreria accanto al camino, dall’altro la cucina con la grossa stufa di ghisa, un tavolo rettangolare e quattro sedie e, più in là, oltre la porta, la dispensa e lo scantinato. Le camere da letto e l’unico bagno erano al piano superiore. Al laboratorio, che aveva ricavato sul retro della cascina per riporre i materiali per l’apicoltura, si accedeva dal cortile.

Raggiunse il primo dei tre gradoni che, per sistemare l’apiario in piano, aveva scavato lungo la ripida collina dietro casa e delimitato con muretti di sostegno in blocchi cavi di calcestruzzo. Le arnie erano trenta, poste in linea retta, dieci per livello e con gli ingressi orientati nella stessa direzione, ma a intervalli irregolari, di colori diversi (giallo, arancione, grigio e blu) e contrassegnate con figure differenti sulle facciate per evitare che le api facessero ritorno nell’alveare sbagliato per dare agli insetti un punto di riferimento, nel caso ciò che aveva sentito dire sul loro straordinario senso di orientamento fosse soltanto una leggenda, aveva anche collocato lungo i terrazzamenti arbusti, rocce e alberi da frutto.

Poggiò sull’arnia vicina la scodella e la siringa di vetro, sollevò il coperchio metallico del primo alveare della fila e sistemò anche quello sulla cassetta a fianco poi con una leva alzò la copertura di legno sottostante, che copriva il favo e che le api avevano sigillato con il propoli per impedire l’entrata dell’aria. Aspirò il liquido con la siringa e lo gocciolò tra i telai. L’acido avrebbe raggiunto solo alcune delle migliaia di api che popolavano l’arnia, che però lo avrebbero trasmesso alle altre per strofinamento. Richiuse la cassetta con cura e passò a quella successiva e poi a quella ancora dopo, ripetendo i medesimi gesti.

Un’ora e mezza più tardi aveva finito e si avviò verso il magazzino. La luce fioca di quel pomeriggio di dicembre stava svanendo. Avvertì un brivido di freddo. Aveva lavorato di buona lena e sino a quel momento non aveva badato alla temperatura, ragionò stringendo le spalle e incassandovi il collo per proteggersi.

Fu allora che lo vide. Lo zio lo stava aspettando accanto alla porta del locale, con le braccia conserte e l’espressione impaziente.

“Devo sapere se hai riflettuto sulla mia offerta. Subito” disse, quando lui fu abbastanza vicino per sentirlo.

Lui non capì a quale proposta si stesse riferendo e lo guardò con aria interrogativa. L’uomo schioccò la lingua, come se fosse irritato dalla sua mancanza di perspicacia.

“E allora?” urlò, afferrandogli un braccio, il volto paonazzo per la rabbia.

“Sì, sì” si limitò a rispondere per prendere tempo, costringendosi a mantenere la calma e facendo un passo indietro per divincolarsi dalla stretta.

“E?” lo incalzò lo zio.

Abituato alle farneticazioni e agli scatti d’ira del vecchio, pensò di chiedergli di ripetere ciò che aveva in mente, perché, per quanto si sforzasse, non ricordava né di aver avuto una conversazione con lui, né tanto meno di dovergli una risposta. Rimase in silenzio per qualche secondo, cercando le parole giuste da dire.

“E va bene” riprese l’uomo, inaspettatamente calmo “Come al solito, l’altra volta non sei stato ad ascoltarmi. Ti ripeterò tutto dal principio, ma fai attenzione, quello che ti dirò potrebbe mettere in pericolo le nostre vite”.

Il racconto fu così lungo e avvincente da insospettirlo. Quando lo zio ebbe finito di parlare, lo scrutò attentamente e a lungo prima di replicare, per valutare la sua espressione e decidere se credergli o mandarlo a quel paese perché gli aveva rifilato una sfilza di panzane.

“Dicevi sul serio?” domandò.

“Che diamine! Certo che dicevo sul serio e posso dimostrarlo. Guarda!”

Il vecchio estrasse dalla tasca del giaccone una pezzuola ripiegato con cura. Quando la aprì, ne uscirono una manciata di monete d’oro, un paio di anelli luccicanti e un orologio da taschino. Lui fece il gesto di avvicinarsi per guardare meglio ma l’uomo richiuse il panno si scatto.

“Accipicchia!” Commentò con un fischio “Tranquillo, zio, farò quello che mi chiedi. Vedrai che andrà tutto per il verso giusto”.

Fece per allontanarsi, ma il vecchio lo trattenne stringendogli nuovamente il braccio.

“Ricordati il nome della persona di cui ti ho parlato”.

Poi lo lasciò e, prima che lui potesse aprire la bocca e replicare qualcosa, cominciò a scuotere il capo e, avviandosi verso la strada diretto chissà dove si voltò un’ultima volta verso di lui.

“E non cercare di farmela, o di correre dalle guardie a raccontare tutto, perché ti terrò d’occhio”.

Lui alzò le spalle soffocando una risata e, deposti gli indumenti e gli attrezzi da apicoltore, rientrò in casa pensoso e infreddolito. Registrò che la stufa doveva essere ricaricata. Aprì lo sportello, infilò due ceppi e manovrò di attizzatoio. Il fuoco cominciò a scoppiettare e, dopo qualche fiammata, prese un ritmo regolare e il calore di cui sentiva un bisogno disperato iniziò a diffondersi. Tirò fuori dal frigo un pezzo di formaggio e lo addentò senza tante cerimonie, in piedi e direttamente dalla confezione.

Ripensò alle ultime parole che lo zio aveva pronunciato. Lo aveva ammonito che da lì in avanti lo avrebbe tenuto d’occhio. Anche lui sorvegliava continuamente il vecchio per raccogliere informazioni sulle sue debolezze e metterle da parte, aspettando che arrivasse il momento giusto per tirarle fuori e usarle contro di lui. E aveva perso il conto di quanto tempo fosse trascorso da quando aveva cominciato. Non gli piaceva che lui e lo zio si interessassero l’uno dell’altro. Poteva sembrare che tra loro ci fosse un legame. Ma era innegabile che, se c’era quel genere di connessione non avrebbe fatto invidia a nessuno. E anche rimuginare sul tempo che aveva sprecato a controllarlo, senza accorgersi che la pietra da legargli al collo era sempre stata lì sotto il suo naso, non aveva più senso. Doveva gioire, invece. Il segreto che lo zio gli aveva rivelato era una vera e propria benedizione e lo avrebbe ripagato di tutto anche dell’inutile perdita di tempo.

Si accasciò sul divano, chiuse gli occhi e si concentrò su ciò che doveva fare.

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