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La casa del freddo

Mi chiedo adesso che cosa ci ha spinto a fare quello che abbiamo fatto nella casa del freddo, che cosa ci ha spinto a tentare una sfida che, per quanto adesso posso sembrare assurda , allora ci era sembrata così naturale e così sostanziale alla nostra giovinezza.

Me lo chiedo ogni attimo che passa, mentre me ne sto abbarbicato al davanzale di arenaria della finestra sul davanti, quella sempre esposta al sole, cercando di assorbire il più possibile, dentro di me, il calore di questo agosto inoltrato, mentre torno a controllare che siano accese tutte le stufe elettriche che ho installato in casa, mentre mi accerto per l’ennesima volta che tutte le imposte siano spalancate a lasciare entrare il caldo afoso che dicono ci sia fuori, mentre passo senza speranza da un termometro all’altro spiando l’evoluzione della temperatura. E, come ogni volta che mi sono chiesto il perché di tutta questa storia, la risposta è sempre la stessa, semplice e diretta: in fondo, non si è trattato, da parte nostra, che di un gioco di ragazzi, di una sfida adolescenziale, del prolungamento inquieto di una stagione al tramonto. Poi, torno a distendere le braccia al sole forte dell’estate, dando le spalle all’appartamento vuoto, e rimango ad aspettare.

Amavo Prasco. Tre o quattro volte l’anno prendevo l’autostrada fino ad Alessandria, poi la statale per Acqui e quindi la statale per Ovada che, oltrepassata Visone, mi portava dopo qualche chilometro al bivio dal quale si distaccava la strada che con una lunga serie di tornanti saliva sulla cima della collina di Prasco. Qui, dopo l’ultima curva, tra vigneti e fitti boschi di noccioli, il campanile della parrocchiale del paese segnava lo zenit della collina, poco distante della massa del castello con la sua torre di avvistamento. Nei secoli passati, quelle valli erano una rapida via d’accesso del Mar Ligure all’entroterra e i saraceni le percorrevano in poche ore, dando prova di una velocità pari almeno a quella che tenevano per mare, a bordo delle loro navi leggere. Al loro passaggio, razziavano tutto quello che potevano portare con sé alle navi e oltre il mare, cibo, uomini, bestiame, le povere ricchezze di quelle terre. Un giorno, Piero mi aveva detto che un segreto filo rosso, invisibile ma tenace, legava le sue terre alle più vaste distese delle coste mediterranee, un flusso umano gli scorridori venuti dalle rive di Barberia erano stati i mallevadori, strani e dimenticati legami di sangue tra la gente nata all’ombra del campanile e della torre del castello e le assolate campagne del Maghreb e poi, secoli più tardi, con le steppe della Rumelia e dell’Anatolia, passati attraverso i polverosi serragli del vecchio impero ottomano. Io, che percorrevo la strada dal verso opposto, scorgevo solo all’ultimo momento il campanile e la torre, come se chi li aveva costruiti secoli prima sapesse che i nemici che venivano dalla mia parte erano meno pericolosi di quelli che venivano dalla parte del mare, potendo essere affrontati all’ultimo momento, giocandosi la vita come veniva. Un giorno ero salito sul campanile e , da quel punto di vista rovesciato,  lo sguardo si poteva spingere nelle belle giornate così a sud da fare presagire la distesa del mare. Non importavano le altre direzioni, qualcosa nell’aria sospesa in lontananza riverberava echi di onde, e furore che non bastava ad attenuare l’odore apro della legna bruciata e delle pietre calcinate al sole. Ma se Prasco si affacciava per forza sul mondo con tale ampiezza, all’estensione possibile dello sguardo faceva da contraltare la chiusura delle piccole vie, dei portoni massicci di legno scolpito, la cortese impenetrabilità degli abitanti. Era come se all’aprirsi dello sguardo sul mondo corrispondesse una chiusura per cui il paese si ripiegava su se stesso, avvolgendosi in strati e strati di generazioni e di segreti che escludevano l’estraneo. Per questo amavo Prasco, per lo sguardo immenso che poteva gettare dal suo campanile e per il segreto del paese placidamente acquattato sotto di me mentre lasciavo che gli occhi vagassero su uno spazio che anche dopo tanta pianura mi pareva sconfinato.

Una domenica di giugno, ormai due mesi fa, ero tornato a Prasco dopo una lunga assenza. Era una domenica di inizio estate, ma nonostante il caldo già soffocante i trecento chilometri in macchina da Bologna mi erano sembrati pochi e veloci; l’ultimo tratto di strada, poi era volato, mentre le colline correvano lungo le curve, imparruccate di boschi ancora verdi nonostante la siccità che tormentava il paese da mesi. Man mano che mi avvicinavo alla deviazione per Prasco, i luoghi si rivelavano familiari ai miei occhi e ben presto rividi il profilo del paese con il campanile e la torre. Guardai l’orologio e cercai un parcheggio. Ero proprio curioso di vedere ero all’opera come venditore.

Poco dopo ero nella piazza principale del paese, dove era in pieno svolgimento il mercatino domenicale. Tra bancarelle di cianfrusaglie e rivendite di cibi tipici, scorsi Piero in un angolo della piazza. Era davanti alla sua bancarella di cosmetici naturali, erbe medicinali e altri intrugli, e stava imbonendo un paio di ragazze di fuori stringendo un mazzo di piante secche come se si preparasse a rivolgere loro una beffarda domanda di matrimonio. Senza farmi vedere, aspettai che le ragazze pagassero il loro mazzo di piante secche e mi avvicinai. La sua figura alta e snella sovrastava quella dei passanti e, anche se la piazza era piena di gente arrivata da Acqui e Alessandria per il mercatino, Piero era uno dei pochi giovani che potevano dire di essere del posto. La gente del paese era perlopiù anziana e sembrava poco interessata alle bancarelle che evidentemente consideravano soltanto un’idea bislacca dell’amministrazione comunale per vivacizzare il paese e toglierlo dall’isolamento in cui sembrava essere sprofondato.

In realtà ci eravamo visti a Bologna due gironi prima, per cui ci limitammo a scambiare quattro chiacchiere osservando i possibili compratori che si affollavano intorno alle bancarelle. Piero era nato a Prasco, anche se viveva a Bologna fin dai tempi delle medie. Come succede nei paesini, anche se tornava a Prasco solo d’estate e per qualche festa comandata, conosceva tutti, anche quelli che erano andati via o che erano passati a miglior vita, e di quelli che non conosceva di persona, sapeva i più minuscoli fatterelli, gli stessi pettegolezzi che per strada passavano di bocca in bocca giungendo fino alle vecchie zie che erano le ultime parenti rimastegli dopo la morte dei genitori. Così, mi aggiornò rapidamente sulle novità del paese, cosa facile a farsi, perché ormai gli abitanti rimasti non erano di qualche centinaio. Poi, dal momento che gli affari languivano e che c’era poco da fare con le ragazze che a gruppetti passeggiavano tra le bancarelle, decidemmo per il momento di chiudere il commercio e andare a bere un bicchiere al caffé che dava sulla piazza.

 

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