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La forza di Ippocrate

Appunti dal Sud del mondo

Come su un molo dall’alto di un faro, siamo in attesa della tempesta. Senza mezzi per affrontarla, senza vie di fuga. Dall’altro ieri il governo ha imposto il coprifuoco. Dalla sera al primo mattino. Chiuso anche l’aeroporto per voli passeggeri. Qui in Africa Orientale si sono registrati i primi casi di Covid-19. In Tanzania, Etiopia, Uganda. In Kenya per ora ci sono solo due laboratori di ricerca che effettuano i test, uno a Nairobi e uno a Kilifi sulla costa. Sono stati accertati a oggi 38 pazienti positivi, uno deceduto, uno guarito. Un iceberg di una situazione ben più seria, in un Sistema Sanitario fragile ben lontano dell'”Universal Health Coverage”, del diritto alla salute di tutti. In tutto il Kenya ci sono 150 posti di terapia intensiva per 45 milioni di abitanti. E pochissimi medici e infermieri anestesisti/intensivisti. Ma un problema ancora più grande della carenza di servizi specialisti è che in una città come Nairobi, circondata completamente da baraccopoli, le norme di prevenzione non valgono per due milioni e mezzo di persone. Lavarsi le mani? Per almeno 20 secondi? Nessuna delle baracche accatastate l’una all’altra ha acqua corrente e servizi igienici. L’acqua si compra. E non si può sprecarla! Se si deve scegliere fra un pasto al girono e il sapone, non si acquista il sapone. Distanziamento sociale e isolamento? La densità della popolazione in uno Slum è di 100.000 abitanti in un chilometro quadro. Quarantena? Dove? Chiusi in dieci in una baracca di tre metri per tre senza finestre con vista su vicoli senza fogne e latrine. Fare scorte alimentari ai supermercati? Sopravvivendo con un dollaro al girono? Al massimo si comprano mais e fagioli per un pasto. Chiusura delle scuole? La maggioranza dei bambini va a scuola perché viene assicurato il cibo, proprio per aumentare la frequenza scolastica. Ora che le hanno chiuse davvero si ritrovano addensati nelle strade, a cercare da mangiare per loro e le famiglie. E questa è la realtà dei poveri di tante megalopoli del mondo. Come si potranno preparare allo tsunami della pandemia in espansione?

In queste settimane abbiamo seguito con angoscia e dolore la drammatica situazione nella nostra Italia. Comunichiamo ogni girono con i nostri figli, i parenti, gli amici più cari. Parlo con i colleghi esausti dai turni ospedalieri al fianco dei malati. Pensiamo con forza all’importanza inestimabile della Sanità Pubblica, tagliata e maltrattata, ma ancora viva per merito eroico dei suoi operatori sanitari

Nairobi, marzo 2020 

Diario dal Nord del Mondo

Il Tempo ritrovato

Non è stato facile.

C’è voluto del tempo per ottenere la fiducia necessaria a coinvolgere gli utenti dell’ambulatorio del Centro Vincenziano di via Saccarelli 21 di Torino in un progetto di educazione sanitaria. Normalmente le persone che si rivolgono al centro vengono per motivi più basilari. D’inverno, a Torino, fa freddo. Vivere sotto i portici, in ripari di cartone e vecchie coperte, è difficile. D’inverno a Torino si muore di freddo, sotto i portici. Nel vero senso della parola.

Ogni anno gli ospedali della città tentano di rianimare senza fissa dimora assiderati con alterne fortune. D0inverno, il caffè caldo e i vestiti pesanti che si trovano in via Saccarelli riscaldano il corpo, il cuore e l’anima. Durante il resto dell’anno, i senza fissa dimora che frequentano il centro favoriscono di colazioni, pacchi viveri, vestiario pulito e di un medico che, in qualche modo, cerca di dare una risposta ai bisogni di salute di base.

L’obiettivo, seppure troppe volte effimero, è reinserire l’utente al proprio posto all’interno del Servizio Sanitario Nazionale, creando quella alleanza tra medico e paziente che è il presupposto essenziale alla cura.

Non è facile.

Dopo il passaggio al centro di via Saccarelli, ottenuto quello che serve al momento, le persone fuggono velocemente, quasi scappando. Molti vanno via prima della visita medica, perché “si deve aspettare”, esistono una fila da rispettare e regole da seguire.

“Dove dovrai mai andare che non hai una casa?” è la domanda che ogni operatore formula nella propria testa, senza, quasi mai, esplicitarla al paziente. Quando, forti di una fiducia mal celata, la si propone al paziente, le risposte sono varie: 2Devo andare a fare la coda per il pranzo, devo andare in stazione, sul treno, ai bagni… semplicemente… altrove”.

Cristina, la psichiatra che aiuta negli ambulatori, mi ha detto una frase importante: “non hanno mai tempo, probabilmente perché non hanno abbastanza tempo interiore”, o perché hanno una percezione di loro stessi che non “merita tempo”. Un concetto che ci ha spinto a “creare tempo per i nostri utenti”: non solo tempo fisico, ma soprattutto mentale. Il tempo di fermarsi a chiacchierare di salute al di fuori dell’ambulatorio con medici e infermieri che hanno appeso il camice al chiodo.

Non è stato facile.

Non è stato facile intercettare chi era disposto a “fare spazio” al tempo necessario. Non è stato facile abbandonare i preconcetti di “noi” e “loro”, “medico” e “paziente”, “regolare” e “irregolare”, con o senza una casa.

Non è stato facile, come tutte le partenze, ma una volta avviata questa esperienza è stata illuminante.

Da dicembre 2019 a febbraio 2020, mentre a Wuhan il Coronavirus incubava, a Torino, un gruppo di cosiddetti “senza fissa dimora” si trovava periodicamente a lezione di salute.

La dieta mediterranea è molto semplice da spiegare. Basta far vedere l’immagine della piramide alimentare: devi muoverti molto, bere molta acqua, mangiare verdura, cereali, pesce, ridurre i grassi, zuccheri e alcol. Questa immagine è più difficile da sostenere quando si viene fatto notare che per camminare molto devi avere le scarpe (uguali e non rotte), non devi congelare per il freddo e non devi avere la schiena rotta dalla notte sul cartone; che se vivi per strada, la verdura riempie poco lo stomaco, le mense riescono a malapena a dare pasta e patate, che il pesce al massimo lo puoi pescare nel Po e che il Tavernello costa meno dell’acqua.

Le malattie sessualmente trasmesse sono un dramma sociale. Non è però così complesso combatterle. Basta mettere il preservativo. Peccato che i preservativi hanno un costo, che non sono distribuiti dagli enti religiosi, che lavorando sulla strada si impara presto che il cliente paga ben di più se può non utilizzarlo.

Gli incontri hanno aperto scenari di confronto tra gli “esperti di salute” che conoscono teoria e medicina e gli “esperti di strada” che affrontano ogni giorno la realtà di chi un tetto sulla testa non ce l’ha.

Durante questi incontri abbiamo scoperto persone e storie. C’era chi, transgender e senza fissa dimora, non riusciva a cambiare il nome sui documenti, rimanendo disoccupata e costretta a lavorare sulla strada perché “Nessuno vuole un lavoratore fisicamente donna con il nome da uomo”.

C’era chi era stanca, perché stava dormendo in una casa occupata, con un coltello sotto il tetto perché qualche giorno prima i ladri avevano cercato di derubarla. Nella casa c’era un braciere con cui si scaldava, mettendosi ad alto rischio di intossicazione di monossido di carbonio. Aveva lasciato aperta una finestra per evitare la camera iperbarica. Il monossido era uscito ma erano entrati i ladri…

C’era chi aveva scelto la vita di strada per una questione filosofica. Nata in una famiglia bene della città, viveva la propria laica vocazione per strada, insieme ai cosiddetti “ultimi”. Ne interpretava i bisogni per renderli comprensibili alla società “di chi ha un tetto sulla testa”.

C’era chi amava il cinema così tanto da lavorare la notte per strada da poterci andare di giorno.

L’ultimo incontro non sapevamo sarebbe stato l’ultimo. Avevamo messo a punto un bel programma di nuove riunioni su temi differenti, più intimi. Poi è arrivato il Coronavirus. Sono stati chiusi i cinema, i centri per disagiati, gli ambulatori, le mense, i bagni pubblici. Sono aumentati i nuovi poveri. Gente al limite che con la crisi ha perso il lavoro e la casa. “Nuovi” e inesperti della vita di strada che i nostri discenti conoscevano così bene.

Il Coronavirus ha sconvolto la società. Ha fatto crollare un Sistema Sanitario già al collasso prima della Pandemia, spegnendo anche la nostra iniziativa.

Il germoglio della fiducia reciproca nato durante quegli incontri non è stato, però, soffocato dal virus. Ha resistito, dimostrando che l’alleanza medico-paziente che si dovrebbe creare nell’ambulatorio può crescere anche in un contesto più informale, durante una chiacchierata davanti ad un caffè.

Quando gli ambulatori hanno potuto riaprire si è ricominciato anche a parlare di salute, di vita, di Coronavirus. Gli incontri sono ripresi su vari temi, è stato proposto il Basic Life Support, raccontando come comportarsi in caso di emergenza e come utilizzare il defibrillatore. Abbiamo scoperto che i discendenti conoscono meglio dei docenti la locazione dei defibrillatori, ma che hanno paura di contattare il 112/118 per timore di essere catalogati, segnalati, denunciati.

La pandemia ci ha insegnato l’importanze del tempo. Ci ha insegnato l’importanza del fermarsi, dell’uscire all’aperto, del rallentare. Ci ha insegnato a ricavare tempo e spazio per i rapporti tra persone, al di là di essere medici o senza fissa dimora. Semplicemente persone.

Torino, dicembre 2020

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