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Il mio universo dislessico

Ho sempre pensato di voler vivere intensamente la mia vita, ma come potevo immaginare che sarei arrivata fin qui?

Da quando ho memoria, per me è sempre stato tutto così movimentato! Un po’ come quando prendi un gran bel respiro dopo l’apnea… Mi sentivo soffocare: un fardello troppo pesante sulle mie spalle e spesso non sapevo come sorreggerlo.

Avrei sempre voluto essere una farfalla, leggera e colorata in un giorno di primavera, diventare così piccola per poter volare via dalle situazioni scomode, quelle situazioni scomode, quelle situazioni in cui nessuno ti capisce veramente. Molte volte avrei voluto ascoltare solo il rumore delle foglie e sentire il profumo meraviglioso dei fiori, davanti ad un bel tramonto.

Avrei voluto correre nei boschi, dormire nel silenzio assoluto dei rifugi di montagna sotto un cielo di stelle in piena estate.

Invece sono qui, io, un esserino insignificante, un puntino in questo enorme mondo che si dispera per la sua inadeguatezza.

Ma un giorno mi sono resa conto che qualcosa stava cambiando, sentivo che la tempesta era finalmente passata, le ferite ormai cicatrizzate e tutto il dolore si era trasformato in soddisfazione. Finalmente mi stavo prendendo la rivincita sulla mia adolescenza da dislessica.

Ricordi d’infanzia

Tutto iniziò da piccola. Ancora oggi basta un flashback che mi riporta indietro nel tempo, alla mia infanzia, a farmi soffrire. Non capivo che cosa stesse succedendo, non capivo il motivo del dolore che provavo.

Tutto è sempre girato intorno alla mia dislessia. Ha segnato tutta la mia vita e quella dei miei genitori, in ogni sua sfumatura, in ogni suo dolore e soddisfazione.

Mi ricordo ancora quel giorno era il primo di settembre del 1997: sole, nuvole di zucchero filato e cielo blu, il profumo di estate e tanti fiori, mamma mi teneva la mano, io avevo uno zainetto giallo e verde, due dei miei colori preferiti. Era il mio primo giorno di asilo, sentivo tanto rumore provenire dal portone, più ci avvicinavamo e più il rumore aumentava.

La mamma disse che sarebbe tornata a prendermi presto, ma io volevo solo tornare a casa con lei, provai a piangere, ma lei con lo sguardo dolce mi disse che avrei potuto giocare e divertirmi con gli altri bambini, anzi, era sicura che al termine della mattinata io non sarei più voluta tornare a casa.

La mia cara mamma si sbagliava, non mi piacque affatto l’asilo: troppi bambini, troppo rumore e giochi cha a me non interessavano.

Mamma e papà trovavano sempre un modo per convincermi a rimanere. Mi dicevano che se avessi fatto la brava, avrei potuto fare merenda con il gelato, che io adoro, così, anche se i bambini e le maestre non mi stavano simpatici, ogni volta che chiudevo gli occhi, pensavo al mio gelato con un biscotto sbriciolato sopra, nella mia solita tazza blu, mi rassegnavo e rimanevo. Naturalmente, le loro regole prevedevano che io restassi all’asilo senza piangere, non specificavano che dovessi fare amicizia.

le maestre dicevano che ero una bambina molto educata e tranquilla, ma che, secondo loro, a scuola vivevo tutto il tempo in una bolla, che non volevo fare amicizia e mi staccavo sempre dal gruppo per giocare da sola, che interagivo solo quando pitturavamo o costruivamo qualche oggetto.

Le maestre avevano ragione: io ero una bambina molto semplice, come potevano pensare che preferissi passare il tempo a scuola, quando avrei potuto stare a casa con i nonni? A casa ero una bambina molto solare, adoravo travestirmi, mi piaceva l’idea di avere un’altra identità e di assomigliare a qualcuno che non fossi io: occhiali grandi, tanti braccialetti colorati, vestiti stravaganti fatti di lenzuola vecchie e grembiuli.

Io vivevo in un paese di campagna, la mia casa si trovava poco fuori dal centro di una cittadina di 5000 abitanti, un cortile grandissimo con due giardini, tre grandi cani e un orto bellissimo. I nostri vicini di casa erano i miei amati nonni, un garage di legno per le macchine ed un grande campo dietro casa dove il nonno aveva iniziato a fare l’orto, con tanti alberi di pesco e fichi, che ogni estate ci regalavano dei frutti buonissimi.

Da piccola non volevo mai andare al parco giochi o all’oratorio, preferivo giocare nell’orto con il nonno, aiutarlo nelle sue mille faccende, raccogliere patate e pomodori.

La aiutavo a spazzare le foglie in cortile, mi ha insegnato a legare e a potare le viti, invece con la nonna raccoglievamo i funghi che lei poi, con tanto amore, ci cucinava per pranzo.

Il nonno inventava sempre qualcosa per me; con una corda e una tavola di legno mi aveva costruito un’altalena, con il salice mi aveva fatto un arco con cui giocavamo a freccette. Insomma, a casa ero molto felice e andavo all’asilo solo per accontentare i miei genitori. io e mia nonna preparavamo le bugie, i ravioli e i cannelloni per la domenica: aveva così tante scorte che due freezer non bastavano mai. Mio nonno le portava il piano di lavoro per fare la pasta, lei prendeva la grande arbanella di farina e, senza usare bilance, le versava sul tavolo, poi rompeva le grandi uova che facevano le galline nel pollaio vicino al capanno, una manciatina di sale e iniziava a impastare dall’interno incorporando poi tutta la farina, fino a che la superficie non diventava liscia e soffice. Quando andava a lavarsi le mani, io annusavo il suo impasto, non dimenticherò mai quel profumo, così genuino.

Lasciava la pasta riposare, poi la stendeva a mano e , con il suo ripieno segreto, creava dei piccoli ravioli. La domenica ci riunivamo tutti e ne mangiavamo piatti stracolmi.

Una volta alla settimana preparavamo il pane.

Tre o quattro ore prima, il nonno accendeva il fuoco in un vecchio forno vicino al capanno, la nonna nel frattempo preparava l’impasto e lo lasciava riposare sotto alcune coperte, mi lasciava sempre un po’ di impasto con cui potevo sbizzarrirmi a creare delle formine. Io ne mangiavo sempre un pezzetto, di nascosto, e con il restante cercavo di fare delle pagnotte simili alle sue, ma non ci riuscivo, allora  creavo degli animaletti o dei cuoricini che la sera doveva mangiare il mio povero papà.

Una volta che l’impasto era lievitato, e il forno secondo l’occhio esperto del nonno era pronto, lo portavamo in cortile e con un taglierino incidevamo una linea su tutte le pagnotte e le infornavamo. Non vi dico che pane meraviglioso usciva da quel forno a legna e che profumo si diffondeva per tutta la casa!

Mentre il pane cuoceva, pregustavo il momento in cui, a colazione, lo avrei tuffato nel caffelatte (mamma usava sempre il microonde, ma la nonna d’inverno lo faceva bollire sulla stufa a legna e veniva sempre più buono) o, a merenda, gustato con la marmellata preparata con la nostra frutta.

Mamma e papà dovevano lavorare tanto, ma erano dei genitori presenti, la sera si stava tutti assieme e il sabato e la domenica facevamo sempre qualcosa di bello per divertirci, facesse caldo o freddo, andavamo sempre da qualche parte.

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