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In mezzo ai girasoli e sotto le betulle

In mezzo ai girasoli e sotto le betulle – Corrado Palmarin

Vincitore del “Premio Acqui Edito Inedito” sezione Romanzo Storico.

“Affiorano temi politici e religiosi, ma il racconto disegna soprattutto un percorso di consapevolezza e di scoperta di umanità, che resta indelebile nella memoria del reduce e lo portano a ricercare quelle relazioni aldilà dei “muri” delle ideologie e dei confini. Così la ricerca e poi la corrispondenza diviene sostegno alla memoria.
Il linguaggio dell’autore restituisce l’immediatezza e l’essenzialità della documentazione utilizzata.”
(Giuria del Premio Edito Inedito)

La convalescenza

Vengo spostato in uno stanzone al piano terra, dove giganteggia un’impalcatura a due piani, a forma di emiciclo formata da assi di legno sistemate in modo continuo. Al centro di esso una grande stufa, alla quale i russi si alternano giorno e notte al fine di mantenere il fuoco acceso. Quel poco caldo che abbiamo è tutto lì. Ognuno di noi ha a disposizione due sottili coperte, una da mettere sotto e una sopra. Siamo a strettissimo contatto l’uno con l’altro. Siamo moltissimi e la struttura è al colmo della capienza. Indossiamo quasi tutti un lungo camice che le infermiere ci avevano dato il primo giorno. Qualcuno è completamente nudo. Durante i primi giorni ci avevano disinfestato e rasati completamente, comprese le parti intime. Ciò nonostante, i pidocchi e le cimici non ci danno tregua. Le infermiere vestite di bianco fanno la spola tra noi giovani, infilati in queste sistemazioni di fortuna.
Faccio fatica a guardarmi, a vedere la mia immagine riflessa su quel vecchio specchio arrugginito vicino all’ingresso. I miei compagni sono come me: degli scheletri viventi. Non riesco a muovere le braccia e sento di non avere più muscoli e forza per farlo. Le nostre ossa spingono su quei tavolacci. Nemmeno la carne ci fa da cuscino. Vedo il mio compagno vicino che deve urinare ma che non riesce nemmeno ad alzarsi. Non molto distante da noi, un piccolo scomparto funge da bagno. Osservo il grande buco formato da quelle quattro tavole di legno inchiodate al pavimento alla meno peggio dove lascio ciò mi resta dentro. Sono malfermo e ogni volta rischio di finire in quell’immondo cratere. Intorno l’aria appestata dal forte fetore della carne in cancrena dei congelati e i lamenti di dolore e di preghiera riempie noi tutti. Vicino a me, mano a mano che le ore e i giorni passano, si liberano spazi e i morti aumentano in proporzione. Li vedo portare via spogliati dalle guardie del campo o dalle infermiere da quell’unico indumento che verrà dato a chi è ancora in vita.
Con il passare dei giorni iniziano a darci da mangiare qualcosa di più sostanzioso e abbondano le razioni di thè. A pranzo una scodella di miglio cotto che ci dividiamo in quattro. I nostri cucchiai di legno si muovono veloci per essere più rapidi dei nostri tre vicini. Quel cibo, di cui prima non conoscevamo l’esistenza, è così buono. Un pomeriggio mi alzo dal letto camminando lento verso il gabinetto. Mi appoggio alla parete.
Le forze mi mancano. Mi gira la testa. Con la coperta addosso per coprirmi dal freddo, riesco ad aprire il portone. Fuori l’aria è fresca. Alzo lo sguardo e vedo quel cielo cupo, come tutto il resto lì, come quegli stretti corridoi dell’ospedale. Perdo sangue dalla bocca e forse per il contatto con quel soffio d’aria e di luce pura, svengo.

[…]

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