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Il nido sul campanile

Introduzione
Seduta sulla pila di pannocchie di granoturco da sfogliare per prepararlo alla sgranatura, una sera alla luce lunare, una donna si lascia andare al racconto della propria vita e delle emozioni provate durante i momenti cruciali della storia. È nato così questo romanzo, basato sulla confessione iniziale della donna e proseguita poi in lunghe sedute. Maria Teresa è la voce narrante del racconto. La sua vita privata si intreccia con quella del borgo e della vita nazionale, diventandone l’espressione più autentica e più vera, giudicata dal punto di vista di una famiglia intrisa di un cattolicesimo credente
e conservatore.

Il paese, le autorità.

Castellalto è un paesino fantastico. Abbarbicato alla collina, come se l’abbracciasse, tutto costruito attorno ad essa, lascia libero dalle costruzioni il suo cocuzzolo chiamato inaspettatamente castello. Del vero castello, se mai ce ne fu uno, è rimasto, nelle viscere della terra, un pozzo residuo e qualche camminamento. Il resto è scomparso, eppure si continua a chiamarlo con quel nome assurdo e insieme familiare. “Vado al castello” si dice recandosi alla piazza che nei secoli si è formata dall’erosione del predetto cocuzzolo, che resta in piedi, seppur friabile come un formaggio, ma ancora saldo nella sua struttura.
In piazza, c’erano tutti i simboli del potere: il municipio, sede dell’autorità civile; la chiesa, sede dell’autorità religiosa; l’asilo infantile, frequentato nei pomeriggi, soprattutto la domenica, da tutti i giovani del paese, sede dell’autorità culturale. Al tempo della nostra storia, il potere sommo era appannaggio delle due autorità maggiori: il podestà, rappresentante della società civile e il parroco, che esercitava il controllo religioso sulla vita dei contadini. Il podestà e il parroco raramente si trovavano in disaccordo: l’uno sorreggeva l’altro in un’armonia artificiale, ma potentemente funzionale all’organizzazione sociale. I due “poteri’, poi, erano coadiuvati dal gruppetto delle suore, conduttrici dell’asilo infantile e, con l’intervento di una suora maestra elementare, anche della cultura del paese.

L’autorità civile si fondava sulla famiglia dei Montiboni. Era il patrimonio che conferiva ad ogni membro di quella famiglia la facoltà di comandare. Il cavalier Andrea Montiboni era un piccoletto tutto nervi, che nascondeva, sotto un interessamento sociale e una continua attività motoria, la sua incapacità di concentrazione. La sua estrazione gli permetteva il privilegio del potere e quello che per un contadino era uno svantaggio diventava per lui una capacità: l’attivismo. Il signor Andrea era quindi stimato, riverito e accettato nel suo ruolo di guida sociale. Accresceva la sua autorità la frequentazione del palazzo comunale, che, nella sua grandezza rispetto alle abitazioni medie, metteva soggezione. Il podestà entrava praticamente in tutti gli affari di famiglia del borgo, consigliando o imponendo, a seconda delle circostanze, soluzioni personali.

Quando Bacicia era andato a registrare il figlio neonato con il nome di Jesus, ricordando l’avventura di emigrante di qualche anno in Argentina, il podestà gli disse, paterno:
– Non si può fare. Il nome deve essere italiano.
Si accordarono per un nome più nostrano: Giuseppe, concentrato nel linguaggio quotidiano in Pinoto. Allo stesso modo, il podestà sentenziava nelle liti di confine delle proprietà: il suo verdetto veniva accettato senza discussioni. “L’autorità è l’autorità” era la tautologica spiegazione che tutti accettavano.
L’altra autorità era quella religiosa, rappresentata dal parroco.
Come si è detto prima, nessuna contraddizione era possibile tra questa e i singoli verdetti del podestà. La mentalità era comunque unica, ma, tra le due autorità, era quella religiosa a prevalere per prestigio e forza morale, accettata da tutti perfino nel saluto. Incontrando il parroco, il saluto d’obbligo era uno squillante “Sia lodato Gesù Cristo” che non c’entrava nulla, ma era espressione di rispetto verso il capo spirituale e la religione in genere.
A reggere la parrocchia era allora don Sandro Storti, detto SS.
Prete energico, consapevole della sua forza morale, era portato spesso a sopravvalutare il proprio ruolo nella società. Era o no il rappresentante di Dio? Come tale, sentiva come suo dovere l’esercizio di controllo della vita dei contadini. Il primo controllo era dato dall’ eucaristia: il numero di ostie consumate indicava la quantità di fedeli che si comunicavano e quindi erano un indice della partecipazione del popolo alla vita della Chiesa. La percentuale di quanti si comunicavano valeva come titolo di merito di fronte ad altri parroci. Non per nulla don Sergio era arciprete e vicario foraneo, indicato dal Vescovo con il compito di sovrintendere e coordinare ben cinque parrocchie vicine.
Il controllo avveniva soprattutto nella sfera sessuale. Don Storti aveva sempre manifestato una certa ossessione per il sesso.
Quando ci spiegava i comandamenti, sembrava che si riferisse a uno solo: il quinto. Gli esempi erano sempre gli stessi: commettere atti impuri portava l’essere umano ad allontanarsi da Dio. Questi era la somma virtù, che si riassumeva nella castità.
Alle “figlie di Maria”, l’associazione che lui stesso aveva fondato a Castellalto e di cui era orgoglioso quando le giovani sfilavano alle processioni con il lungo velo bianco dal capo alle caviglie, raccomandava continuamente una vita morigerata a imitazione delle virtù coltivate dalla Vergine Maria, che si riassumevano, ancora e sempre, in una vita casta. Proibito ogni piccolo contatto con l’altro sesso. Proibito, in particolare, il ballo.

 

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