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Malati di povertà

Un lungo cammino
Anni fa, seduti nella veranda della casa dei medici, ci preparavamo un caffè dopo una lunga notte di emergenze in sala operatoria. In attesa della prima luce dell’alba di un altro giorno di lavoro insieme. Antonio mi parlava del primo paziente che avrebbe dovuto operare. Un bambino di 3 anni on un piede torto, la malformazione congenita più frequente in East Africa. Viveva a Mathare Valley, una delle baraccopoli più densamente popolate di Nairobi. I bambini con questa malformazione non riesco a stare eretti, a camminare e si muovono sulle mani. Se non curati saranno mendicanti di domani coricati ai semafori del centro città. Antonio è oggi uno dei massimi specialisti a Sud del Mondo di questa patologia. La sua chirurgia correttiva diventa Primary Surgery, una chirurgia sociale.
La caffettiera da sei era pronta. “Quanti bambini, quante persone hai fatto camminare di nuovo?” Antonio accenna un sorriso “Un certo numero. Ma non so proprio quello esatto. Quello che ricordo invece sono i volti di una gran parte dei miei pazienti ed alcune delle loro storie.”.
Lombardo di poche parole e di tanti fatti, da quasi 30 anni, con missioni chirurgiche in Africa, ha operato migliaia di pazienti. Ci legano più di 25 anni di amicizia profonda e fraterna. Ci accomunano World Friends e la sua fondazione, la nascita del Ruaraka Uhai Neema Hospital di Nairobi, l’ideale della medicina che diventa strumento di lotta alle diseguaglianze, l’amore per i libri, i silenzi che superano le parole nelle lunghe ore di sala operatoria, la passione irrazionale per l’Inter, e tanto altro.
Forse sotto la veranda in quel mattino di tanti anni fa era già nata in parte inconsciamente l’idea di raccogliere in un libro le storie di lungo cammino di cura. Mancavano i volti. Ma la vita ci privilegia di incontrare nuovi amici che percorrono le stesse strade. Marco, fisico di professione, piemontese adottato dalla Germania per motivi lavorativi e di sentimenti, ha una passione smisurata per la fotografia, quella vera… fatta di luce e delle sue sfumature. Ci siamo ritrovati subito amici, condividendo ideali e progetti. Sono arrivati così i volti… con immagini che a volte superano le parole ma che nel caso di questo piccolo libro le integrano in maniera eloquente e sensibile.
Chi lo leggerà non potrà non emozionarsi, non sentire di dover sapere di più, di provare a conoscere la vita di tante persone delle periferie, delle loro difficoltà dei loro diritti negati ma anche dell’importanza del prendersi cura, dell’assicurare la salute, del garantire la dignità.
Gianfranco Morino
Medico di World Friends
Alcune cose da sapere
Nairobi: una città di cinque milioni di abitanti, una città dai due volti, divisa da un confine che delimita il mondo dei benestanti da quello dei poveri.
Immagina di essere un turista, sei appena atterrato all’aeroporto internazionale Jomo Kenyatta. Da qui al centro sono 27 chilometri lungo la Nairobi Expressway, la nuova sopraelevata di costruzione cinese dalla quale si riesce a vedere l’imponente skyline della città moderna.
I guard-rail ti impediscono di vedere la città bassa, devi allungare il collo per percepirne la presenza. E intanto ti godi lo “spettacolo” dei grattacieli di vetro e cemento, alcuni di architettura avveniristica, piacevoli a vedersi. Durante il giorno i vetri a specchio riflettono la luce del sole, quasi ti abbagliano. Di notte mille luci rubano la scena alle stelle. Un cielo un tempo bellissimo, un prato fiorito: così doveva apparire un secolo fa ai pastori Maasai dall’altopiano dove ora sorge Nairobi.
La Expressway scivola ora nel cuore della città, nella downtown. Le insegne dei mall e dei ristoranti, ammiccano da ogni angolo della strada e i cartelloni pubblicitari ritraggono volti sorridenti di famiglie felici.
Ma, giunto a livello del terreno, solo a qualche centinaio di metri dal centro, le cose cambiano. Ti basta camminare per una decina di minuti, lasciandoti alla spalle vetrine e luci, e, seminascosta nelle depressioni tra le colline su cui si estende la città, ecco che compare la baraccopoli, uno dei tanti slum di Nairobi.
Sei giunto nell'”altro” mondo.
Tre milioni di persone che vivono in più di cento “insediamenti informali”. Così il freddo linguaggio burocratico definisce le baraccopoli.
Lo slum non è un posto per turisti. Questi “insediamenti” non esistono ufficialmente, nessuna guida li menziona e non è consigliabile addentrarvisi senza un accompagnatore locale. Sicuramente non potresti entrare sfoggiando macchine fotografiche, telefonini, orologi e tantomeno gioielli. Oggetti di uso abituale da dove provieni, me che in questo contesto ti identificherebbero come appartenente al “tuo” mondo, quello ricco. Esibirli sarebbe una mancanza di rispetto, una provocazione. E potresti farne le spese.
Per entrarci devi spogliarti degli orpelli e vestirti di umiltà.
Allora scopriresti che il primo incontro con la baraccopoli è olfattivo: un intenso, nauseante odore di ogni sorta di rifiuti.
Polvere o fango, a seconda della stagione. Un brulichio di boda-boda, i mototaxi locali, si destreggiano in un fiume di persone. Tanti i bambini. Vanno e vengono tra file ininterrotte di bancarelle che vendono ogni genere di cose: cibo di strada, spesso rimediato dagli scarti arrivati dalla discarica, vestiario di seconda e terza mano, utensileria riciclata e materiale di recupero. Accanto, scorrono rigagnoli di liquami e pattume al posto della fogna. Oltre, la distesa di tetti di lamiera continua a perdita d’occhio.
Hai varcato un confine senza sbarre ma ben evidenziato da ciò che ti circonda. Mai avresti immaginato di toccare quasi con mano quella povertà che avevi visto solo in fotografia su qualche rivista o a qualche cena benefica come si usa fare da noi per mettersi in pace la coscienza.
E allora, in un momento di lucida riflessione, ti passa la voglia di andare a Malindi, alla Blue Lagoon di Watamu, allo Tsavo, al Maasai Mara. Scopri che la bellezza che ti hanno mostrato i depliant è la punta di un iceberg: una piccola, piccola parte della realtà. Un sistema di lussi e privilegi per pochi che galleggia sopra un’umanità sofferente per la povertà, le malattie, la criminalità diffusa.
Due mondi diversi, entrambi senza futuro.
Lo slum restituisce una scena disperata e sconfortante, dove la prospettiva del quotidiano si ferma, se va bene, all’orizzonte del giorno successivo, in un monotono scorrere di esistenze che rincorrono la sopravvivenza. Ti domandi quale sia o se vi siano vie d’uscita, qualche chance di salvezza per le persone che lo popolano. Se però esplori meglio, e vivi questa quotidianità, lontana dalle immagini dei depliant, ti accorgi che ci sono anche luci di speranza per un futuro diverso. Le trovi nelle associazioni di persone che promuovono microeconomie. Dal riciclaggio dei rifiuti della gigantesca discarica di Dandora, alle donne che producono oggetti e stoffe artigianali, ai gruppi di ragazzi “acrobati”, musicisti, cineasti, artisti di strada sottratti in questo modo alla scuola della criminalità e dell’abuso di alcool o droghe. In baraccopoli ho conosciuto molti giovani con questa voglia di riscatto.
Ragazzi che non vanno lasciati soli.
In questo contesto operano le ONG, offrendo opportunità di emancipazione a chi altrimenti ne resterebbe escluso per mancanza di mezzi materiali ma anche culturali. Un percorso che passa attraverso l’accesso alla salute e all’istruzione. Uno degli obiettivi più importanti è togliere i bambini dal lavoro e dall’ambiente malsano della discarica e mandarli a scuola, sostenendo al contempo le famiglie per non privarle di un guadagno vitale, seppur minimo, per chi vive in questa realtà.
La missione della nostra ONG, World Friends, è garantire a chi non può permetterselo l’accesso alle cure mediche di base. Cure mediche dedicate in particolare alla prevenzione e al trattamento della disabilità, soprattutto infantile, e volte a favorire l’inclusione sociale di chi altrimenti verrebbe dimenticato ed escluso dalla vita della comunità di appartenenza. Il “Progetto Disabilità” nello slum di Nairobi, nasce dalla convinzione che lo stato di buona salute sia un prerequisito per l’accesso all’istruzione, istruzione intesa come strumento di riscatto sociale. Ecco perché nel nostro ospedale, il Neema Hospital, ci occupiamo della salute materno-infantile: la salute intesa come benessere è presupposto essenziale per garantire la partecipazione attiva alla vita comunitaria. Così cerchiamo di offrire un futuro dignitoso ai nostri piccoli pazienti.
Antonio Melotto

 

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